Le imprese lombarde più inclusive grazie alla nuova Prassi di Riferimento

Le imprese lombarde più inclusive grazie alla nuova Prassi di Riferimento

L’inclusione delle persone con disabilità nel mondo del lavoro rappresenta oggi una delle grandi sfide socio-culturali della società. In una popolazione di circa 3 milioni di persone con gravi limitazioni, solo il 32,5% (nella fascia d’età 15-64 anni) risulta occupata contro il 58,9% delle persone senza limitazioni; molto alta la percentuale (20%) di disabili in cerca di occupazione, sensibilmente superiore a quella della popolazione senza forme di disabilità (11,3%).

Regione Lombardia ad inizio marzo ha presentato la nuova Prassi di Riferimento UNI/PdR 159:2024   “Lavoro inclusivo delle persone con disabilità” redatta da UNI, Ente italiano di normazione, e promossa da Regione Lombardia e Unioncamere Lombardia, nell’ambito dell’Accordo per la competitività tra Regione e Sistema camerale lombardo. La Prassi mira a supportare le imprese, attraverso una formazione adeguata rivolta a tutto il personale, nel percorso di inclusione delle persone con disabilità all’interno dei luoghi di lavoro.

Per le imprese che si impegneranno ad intraprendere il percorso è previsto anche un incentivo economico, grazie ad un bando in uscita nel mese di aprile 2024. Le imprese che vi aderiranno beneficeranno di un supporto finanziario per mettere in pratica le indicazioni descritte nella Prassi di Riferimento all’interno della propria organizzazione, agendo sugli elementi ritenuti indispensabili. Tra questi segnaliamo l’adeguatezza delle postazioni di lavoro, l’assenza di barriere architettoniche, senso-percettive e digitali e la collaborazione con gli Enti territoriali per l’inserimento lavorativo.

Ancora, la gestione flessibile dell’orario e dei ritmi di lavoro, la presenza nell’organizzazione di un piano strategico di inclusione, la definizione di momenti di condivisione e la presenza di figure specializzate come il Disability Manager o il Diversity Manager. Particolare rilievo viene infine dato alla specifica formazione del personale.

Nel progetto è prevista una check-list di controllo per verificare la corretta applicazione di tutte le procedure.

Il lancio della Prassi di Riferimento segna l’inizio di una serie di iniziative che si svilupperanno nei prossimi mesi attraverso tavoli tecnici ed eventi territoriali. La Lombardia diventa promotrice nell’implementazione di strategie inclusive e l’adozione di questa Prassi di Riferimento da parte delle imprese lombarde costituisce anche un impegno verso una società più equa e inclusiva. “Sosteniamo con convinzione l’importanza di creare ambienti di lavoro inclusivi, in cui ogni persona possa contribuire al successo dell’organizzazione, e alla piena realizzazione di sé.” Commenta Simona Tironi, Assessore all’Istruzione, Formazione e Lavoro di Regione Lombardia. 

A cura di Claudia Pallanca

 

L’impatto della disabilità sugli altri

L’impatto della disabilità sugli altri

Le persone con disabilità, oltre all’impegno quotidiano per compensare le loro difficoltà, spesso devono anche fare i conti con l’impatto che la loro condizione genera nelle altre persone.

Vi raccontiamo la storia di Mattia, affetto da EB, più nota come sindrome dei Bambini Farfalla, che ci ha concesso una intervista.

La EB è una malattia genetica rara scientificamente nota come epidermolisi bollosa (EB). Si tratta di una malattia della pelle che può interessare anche le mucose. Per questa estrema fragilità della pelle, sono definiti “Bambini Farfalla”. Dalla nascita, i bambini affetti da EB presentano spesso grosse bolle ed estese lacerazioni della pelle che guariranno solo dopo mesi di ricovero ed in seguito a medicazioni quotidiane. Le sofferenze inflitte dalle piaghe da EB sono state paragonate a quelle da ustioni di terzo grado. La sindrome ha un’incidenza di 1 bambino su 17mila su base mondiale, mentre in Italia si registra un caso su 82mila nati, Si tratta di una malattia invalidante, per la quale non esistono ancora cure risolutive.

“ Mi chiamo Mattia ho 28 anni, vivo in provincia di Milano, lavoro in una società che si occupa di gestione fiere dal 2018. Ho una malattia della pelle, che si chiama epidermolisi bollosa, che ho sin dalla nascita, quindi faccio parte delle categorie protette. Nonostante iscritto nelle categorie protette, per me trovare lavoro non è stata una cosa semplice, anzi, è stata un’impresa durissima.”

La EB è una malattia che si vede e, per chi non la conosce, ha un impatto visivo notevole.

“Dopo aver superato le quotidiane sfide della vita, nel 2015, Mattia si è diplomato regolarmente avendo frequentato un istituto commerciale. Aveva voglia di fare, voleva trovarsi un lavoro, aveva tanti progetti” racconta mamma Antonella, che alla nascita di Mattia non si è persa d’animo, ha cercato di comprendere la patologia del figlio, e oggi è parte attiva di una associazione che raggruppa famiglie con bambini e ragazzi affetti da EB (Debra Sudtirol, n.d.r.) oltre ad essere una instancabile ottimista.

“Mattia si è iscritto alle categorie protette subito dopo il diploma. Gli operatori del settore, coloro  che avrebbero dovuto dargli supporto, hanno definito la sua come una “patologia da impatto”, nel senso che avendo un impatto sulla sensibilità visiva degli altri, poteva essere una ulteriore difficoltà per la ricerca di una occupazione.  Dal 2015 al 2017 Mattia ha risposto ad alcune chiamate, ma nonostante avesse la preparazione, le capacità e le qualità per svolgere il lavoro proposto, appena è stato visto non è stato preso in considerazione, ha ricevuto solo rifiuti. Alla disabilità oggettiva, quindi si è aggiunto un ulteriore problema: la difficoltà di farlo accettare per le proprie capacità, oltre il semplice aspetto fisico e visivo.”

Il perdurare della situazione, le incomprensioni da parte di chi avrebbe dovuto portare supporto, la demotivazione stavano avendo ripercussioni anche sulla patologia e sulla salute di Mattia.

“Poi per un caso davvero fortuito” racconta mamma Antonella “nel 2018 Mattia è stato assunto. Le persone che hanno deciso di assumerlo avevano sentito parlare della sua patologia, si sono informate, sono andate oltre l’aspetto fisico, hanno valutato principalmente le sue capacità. Non si sono fermate all’impatto visivo iniziale, sono andate oltre. Dapprima con un contratto a tempo determinato, poi con un contratto a tempo indeterminato, proprio come qualsiasi altro lavoratore.  Mattia ha cambiato la propria proiezione di vita, ha ritrovato motivazione, voglia di fare, ed anche la patologia da cui è affetto ha una minore incidenza sulla sua vita di tutti i giorni.  SI sveglia al mattino con stimolo, voglia di fare, di relazionarsi, di prendersi cura di sé. La patologia perde di importanza, passa in secondo piano, non è più un fattore dominante, Mattia si sente una persona valorizzata per la sua interezza.”

A cura di Claudia Pallanca

 

L’accessibilità e l’inclusione nella tecnologia

L’accessibilità e l’inclusione nella tecnologia

Le tecnologie dovrebbero essere progettate in modo da essere accessibili a tutti gli individui, indipendentemente dalle loro capacità fisiche o cognitive.

Le persone con disabilità sono incluse nella considerazione e nello sviluppo della tecnologia?

La risposta è sì, anche se c’è ancora molto da fare in merito.

In che modo sono incluse?

Attraverso il ricorso a dispositivi, attrezzature, software e servizi progettati per migliorare la qualità della loro vita e facilitare la partecipazione al mondo tecnologico.

Tale possibilità viene descritta come tecnologia assistiva ed è molto importante per consentire alle persone con disabilità di esprimere al meglio le loro potenzialità.

Il ricorso a internet è ad oggi per tutti un importante strumento per avere visibilità, occasione di comunicazione e interazione, basti pensare all’importanza che ha rappresentato durante il difficile periodo della pandemia, un momento storico di grande isolamento in cui restare uniti e “connessi” ha fatto significativamente la differenza.

È dunque fondamentale semplificare sempre di più le tecnologie e renderle intuitive, promuovere l’accessibilità dei siti web e dei contenuti digitali in genere, incentivare le persone con disabilità a ricorrere al prezioso strumento della tecnologia, educare team di sviluppo sulla progettazione inclusiva e sulla creazione di esperienze digitali accessibili per tutti.

Sono molti in particolare gli strumenti in grado di aiutare le persone con disabilità ad accedere all’ambito della tecnologia e avere opportunità di lavoro significative: strumenti di sviluppo software progettati per essere accessibili alle persone con disabilità, piattaforme di formazione online che possono integrare funzionalità di accessibilità come sottotitoli automatici, trascrizioni di video, navigazione accessibile e strumenti di supporto per l’apprendimento inclusivo.

Molto utili per favorire l’inclusione nel mondo del lavoro sono anche le tecnologie che consentono agli utenti di accedere a desktop virtuali o a infrastrutture di desktop remoto, di modo da fornire un ambiente informatico accessibile e personalizzato basato sulle esigenze specifiche dell’utente.

In quali numerosi ambiti l’accessibilità alla tecnologia può essere utile?

Per il raggiungimento di una maggiore autonomia, per permettere alle persone disabili di lavorare e studiare, accedere ai contenuti dell’informazione e della cultura online e consentire anche la riabilitazione a chi ha una disabilità temporanea.

Non solo. Le tecnologie assistive possono contribuire a ridurre significativamente le distanze che intercorrono con le persone che non soffrono di disabilità, incrementandone il benessere personale e l’autostima e favorire quindi l’inclusione sociale. La tecnologia assistiva è un ambito estremamente importante e degno della massima attenzione dal momento che mira a garantire alle persone con disabilità l’accesso alle stesse opportunità e risorse delle persone prive di disabilità, consentendogli di andare oltre le barriere.

 A cura di Chiara Lotito

Le disabilità invisibili

Le disabilità invisibili

“Perché parcheggia nello stallo riservato alle persone con disabilità, se cammina?”

Questa è una frase di tipo discriminatorio quando si giudica una persona con disabilità invisibile. La rappresentazione più comune, per preconcetti e stereotipi sociali, della persona con disabilità consiste in un’immagine standard che propone l’utilizzo di ausili ben visibili, come carrozzina, protesi, stampelle o bastone. Ed è qui che, più o meno inconsapevolmente, si compie una forma di discriminazione velata: considerare una persona con disabilità (etichetta) solo se rimane incasellata in alcune skills fuorvianti.

Secondo l’Istat il numero totale delle persone con disabilità si aggira intorno ai 13 milioni, di cui circa 3 milioni presentano una disabilità grave. Questo numero corrisponde a circa il 21% della popolazione italiana e include un’ampia gamma di disabilità, da quella più grave a quella con minori limitazioni e ripercussioni sulla vita quotidiana, comprese malattie croniche, tumori, demenze e disturbi del comportamento. In molti casi, la condizione di disabilità è dettata da una situazione che limita e vincola la quotidianità, che può essere poco visibile e non intuibile se la persona non lo dichiara. Le cosiddette disabilità invisibili, tema poco affrontato e sommerso, sono tutte quelle menomazioni fisiche, mentali o emotive che il più delle volte passano inosservate.

Generalmente si pensa che la disabilità sia un problema lontano, che colpisce poche persone, ma le statistiche raccontano che non è così. Il 96% delle persone con condizioni mediche croniche vivono con una malattia che è invisibile; alcuni esempi sono la fibromialgia, l’endometriosi, l’epilessia o il diabete. Le disabilità invisibili trasformano in fantasmi chiunque si ritrovi a doverle fronteggiare.

È imperativo riconoscere anche queste disabilità, in primo luogo, per ridurre lo stigma e aumentare la comprensione; infatti, il 46% delle persone in Italia dichiara di non aver rivelato la propria condizione sul posto di lavoro per timore di eventuali discriminazioni e pregiudizi. Le persone con disabilità invisibili possono essere giudicate o fraintese da altri, che non capiscono le loro difficoltà.  Il malato invisibile è costretto a giustificarsi e a spiegare che cosa gli accade, vedendo costantemente messa in dubbio la propria credibilità: è qualcosa che porta grande disagio e sovente anche un senso di umiliazione. Attraverso la conoscenza, si crea una società più solidale ed inclusiva e si può fornire il sostegno di cui hanno bisogno. Inoltre, si evitano le generalizzazioni e si impara ad osservare tutte le sfumature, che non sono solo quelle dei colori primari.

Per le persone con disabilità invisibile può essere difficile parlare della propria situazione, soprattutto nel contesto lavorativo, che mira alla perfomance e alla produzione, azioni che possono risultare molto complicate in questi casi. Ecco perché la priorità è parlarne, in quanto conoscere la situazione permette all’impresa di adattare l’ambiente e fornire i necessari supporti per lavorare tutti al meglio.

Parlare serve alle persone con disabilità, che possono sentirsi finalmente comprese e visibili e alle aziende che possono trovare delle strategie per ottenere un luogo di lavoro più confortevole.

Nel 2016 l’associazione britannica Hidden Disabilities ha ideato un modo per rendere note queste disabilità che non si vedono a occhio nudo: un cordino di quelli per appendere i badge, verde con disegnati sopra dei girasoli. È usato in molti paesi, tra cui l’Italia, ad esempio al Museo Egizio di Torino, per segnalare che si ha diritto a un’assistenza particolare o a una precedenza, perché si sta usufruendo di corsie o parcheggi riservati, o semplicemente se in fila al supermercato ci vuole un po’ più di tempo per insacchettare la spesa. Oltre a segnalare in modo discreto il proprio bisogno di assistenza, il cordino coi girasoli può servire a indicare che c‘è un motivo se si sta usufruendo di corsie o parcheggi riservati, evitando accuse e pregiudizi.

A cura di Sara Mesiano

Le sfide da affrontare per accorciare le distanze tra mondo del lavoro e mondo della disabilità

Le sfide da affrontare per accorciare le distanze tra mondo del lavoro e mondo della disabilità

L’articolo 27 Della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità riconosce loro il diritto al lavoro su base di eguaglianza; questo significa che il lavoro dovrebbe essere scelto liberamente, dovrebbe permettere alla persona di mantenersi e dovrebbe avvenire in un ambiente in grado di garantire inclusione e accessibilità.

Su questo aspetto, la normativa italiana in materia (Legge 68/1999), è molto avanzata, ma allo stesso tempo rimangono alcune criticità. Il focus permane sulla disabilità – anche gli annunci di lavoro ne sono una rappresentazione: in primo piano ci sono le difficoltà e le barriere, spesso ci si dimentica che queste non dovrebbero essere un “problema” delle persone con disabilità, ma al contrario sono l’evidenza dell’incapacità della società di adattarsi ai bisogni di tutti. Quest’eguaglianza, quindi, prevista dalla Convenzione e tanto desiderata, non c’è ancora. Per ottenerla, il focus si deve spostare sulla persona e non sulla sua disabilità: solo così il mondo del lavoro potrà essere veramente aperto e garantire dignità a ogni individuo. Un esempio è l’accomodamento ragionevole, ovvero quell’aggiustamento necessario che possa permettere alla persona con disabilità di esercitare il proprio diritto sulla base di eguaglianza con gli altri. Il punto di partenza, però, per l’utilizzo di questo facilitatore è la disponibilità delle aziende e dei datori di lavoro.

Le prime sfide da affrontare per avvicinare mondo del lavoro e disabilità sono la discriminazione e l’inferiorizzazione. C’è un’idea implicita, che riguarda tutti, che pensa alla disabilità come a una condizione umana di inferiorità e per nulla desiderabile. Il più delle volte le persone vengono identificate con i propri bisogni e si pensa di poter decidere per loro, perché li si considera “non in grado”, di fatto inabili. Ma perché succede questo? Da dove proviene questa convinzione?

La disabilità è un tema universale in quanto riguarda il funzionamento del corpo, un corpo che abbiamo tutti e attraverso il quale ci relazioniamo con il mondo. La mitologia, la letteratura classica, l’iconografia medioevale, la riflessione filosofica del Sei e del Settecento mostrano un’immagine negata, svalutata e occultata del corpo del disabile, perché malato, debole, deforme e di conseguenza stigmatizzato. Tutti coloro che hanno un deficit fisico o mentale, nell’età antica e nel Medioevo, vengono allontanati dai normali circuiti della vita sociale e condannati ad uno stato di emarginazione; la deformità o la debolezza del corpo viene assimilata ad una colpa personale, da espiare con l’esposizione o con l’abbandono. La disabilità è sempre stata un problema per la società, che per progredire doveva contare su corpi conformi e performanti. Anche per questo motivo l’arte l’ha associata spesso a concetti e personaggi negativi; basti pensare alla rappresentazione della malattia mentale nei volti mostruosi degli schizzi di Leonardo da Vinci. Da questo immaginario tramandato deriva la visione parziale e abilista che ci portiamo in eredità fin dai tempi antichi.

Solo dagli ultimi decenni dell’Ottocento inizia una rivalutazione del corpo che prosegue nel Novecento con gli studi sulla psicomotricità e un approccio scientifico allo studio delle diverse disabilità. In linea con questi cambiamenti, muta anche l’immaginario: Victor Hugo, ad esempio, racconta la storia del “gobbo di Notre Dame”, tratteggiando un personaggio dall’animo tormentato e apparentemente meschino, che è però una conseguenza di come lo tratta la società e che nasconde, al contrario, un temperamento in grado di amare e sacrificarsi per l’altro.

Se guardiamo a oggi e arriviamo al cinema, incontriamo una rappresentazione della disabilità che si polarizza: da una parte personaggi intrinsecamente malvagi, come Joker, in cui la malattia mentale lo rende un vero e proprio genio del male, dall’altra iper-virtuosi, quasi dei supereroi, che per compensare la propria disabilità, sviluppano capacità eccezionali, come Forrest Gump o Rain Man.

È come se si fosse passati dall’occultamento alla spettacolarizzazione, là dove continua a mancare un racconto autentico dell’esperienza umana.

Allora per costruire forme di inclusione, che vogliano davvero integrare, per modificare un immaginario radicato nella nostra storia e per abbattere l’idea che le persone con disabilità siano in una condizione di inferiorità e identificate con la loro diagnosi, è necessario costruire relazioni e aprire un confronto che possa ampliare l’orizzonte di possibilità di ogni individuo.

Essere consapevoli dell’abilismo, soprattutto quando è interiorizzato, è fondamentale per cambiare il linguaggio e di conseguenza le dinamiche mentali con le quali la società si approccia al tema della disabilità.

I manager possono chiedersi perché dovrebbero assumere una persona con disabilità visto che potrebbero assumerne una senza. La risposta è che le imprese non devono assumere una persona con disabilità ma piuttosto una persona che possieda le competenze richieste per quella determinata posizione, se poi succede che ha delle disabilità, allora ci si chiede come affrontarle, ma la questione parte proprio da un presupposto ribaltato. Al primo posto ci sono sempre le persone, ognuna con la propria storia, e questo non ci stancheremo mai di dirlo.

Un ambiente di lavoro in cui ogni individuo può esprimere il meglio di sé e dove, chiunque, a prescindere dalle sue condizioni personali, si sente sicuro e protetto, è vincente anche da un punto di vista economico perché è più creativo, più efficiente e apporta un netto miglioramento all’immagine dell’azienda presso il personale, gli stakeholders e la clientela. Infatti, una politica aziendale totalmente inclusiva dà l’opportunità al management di contare su un range più ampio di talenti e riduce il turnover. La via da percorrere sta nella parola “diversità” e la vera domanda da farsi è quali sono gli svantaggi di un ambiente non inclusivo. E sono tanti a partire dalle barriere che vengono erette anziché abbattute. Da qui a cascata si possono generare una serie di conseguenze negative in termini di realizzazione personale, qualità delle relazioni e dedizione al proprio lavoro.

Ecco perché è importante sostenere e promuovere la differenza: Don Milani, docente ed educatore degli anni Sessanta del Novecento diceva che “nulla è più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali.

Sara Mesiano
Pedagogista

La storia di Claudia: la forza e il coraggio di esporsi 

La storia di Claudia: la forza e il coraggio di esporsi 

In occasione del 3 dicembre, Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità, Claudia Pallanca, membro del comitato scientifico di Superjob, account pubblicitario per grandi società editoriali e pubblicista, madre di due giovani ragazzi e impegnata nella politica locale del suo territorio, ha scritto un contributo per il nostro blog. In questa intervista riprendiamo alcuni degli argomenti che sono stati toccati e parliamo di disabilità, di inclusione lavorativa e di cambiamenti, attraverso il racconto della sua esperienza. La biografia di Claudia è la dimostrazione di quanto la disabilità non comprometta il raggiungimento di traguardi importanti e crediamo possa essere fonte d’ispirazione per superare i propri limiti e realizzare i propri desideri. 

Claudia, raccontaci di te. Chi sei e di cosa ti occupi.
Ho 58 anni e sono da molti anni libera professionista; ho iniziato a lavorare nel marketing di aziende cosmetiche e poi sono passata alla pubblicità e alla comunicazione. Lavoro in un grande gruppo editoriale e mi occupo di seguire i piani media dei grandi clienti: i loro sviluppi, le loro attività e i loro lanci; ogni giorno ho a che fare con nuove persone che rappresentano nuove aziende. 

Sono nata con una malformazione congenita alla mano destra che viene definita focomelia che sembrerebbe essere stata causata da un’aderenza fetale e quindi la mia mano destra non si è sviluppata correttamente. Questo tipo di problematica mi toglie le cinque dita della mano destra ed è stata considerata una disabilità abbastanza invalidante, dal momento che una delle due mani ha ridotto di molto le sue funzionalità. Nonostante il fatto di essere nata con questo tipo di “mancanza”, grazie soprattutto alla mia famiglia, che è stata molto severa, sono riuscita a sviluppare le manualità di tutti i giorni, accettando questa mia “lacuna” e sopperendo ad alcuni gesti con altri che mi hanno permesso di risolvere i problemi quotidiani. Questo è il mio modo di affrontare la vita da quando mi ricordo. 

Come avviene l’accettazione di questa “mancanza” e la trasformazione in una risorsa, addirittura riuscendo a viverla come un’unicità? Non è un percorso scontato, perché ci sono molte persone che non ci riescono.
Sottolineo alcune parole che per me sono molto importanti. Nei primissimi anni di vita la famiglia è fondamentale. Per prime le persone che si sono prese cura di me mi hanno stimolato, alle volte quasi con “cattiveria”, ad affrontare questa mia unicità per imparare a rendermi davvero libera e capace di svolgere qualsiasi tipo di attività. Ti faccio un esempio, forse banale, ma che rende bene l’idea. Ricordo ancora la rabbia che provavo nel non riuscire ad allacciarmi le scarpe e mia madre mi diceva: “devi trovare il modo di imparare a farlo perché io potrei anche farlo per te, ma così tu non troveresti ma il tuo modo e il giorno in cui non ci dovessi essere, tu non sapresti come fare.” 

Il ruolo del genitore è importante sia dal punto di vista pratico sia dal punto di vista emotivo: per primo il genitore deve essere in grado di comprendere che questa persona non ha nulla di sbagliato ma semplicemente è una persona diversa. Dobbiamo intanto partire dal presupposto che ognuno di noi è unico e diverso nella sua unicità e quindi i genitori e poi gli insegnati lo devono aiutare a valorizzare le proprie unicità e non a sentirsi una persona mancante di qualcosa. 

Possiamo dire, quindi, che il primo percorso di accettazione lo deve fare la famiglia.
Assolutamente sì. Certo sto parlando di disabilità in questo caso congenite. Altra cosa sono le disabilità che subentrano durante la vita. In questo caso intervengono altre leve psicologiche molto più difficili perché ovviamente passare da una condizione ad un’altra in maniera improvvisa e repentina non è facile. Quando poi si cresce ci sono dei momenti nella vita in cui si fanno dei passaggi molto dolorosi: io ho fatto molto fatica ad accettarmi durante la pubertà quando ci si comincia a guardare e a confrontarsi con gli altri. Il problema è sempre l’adattamento agli stereotipi, qualsiasi siano, in relazione al periodo storico che si sta vivendo. Sono stata aiutata da persone che mi hanno sempre scosso: trovo che la cosa più importante sia quella di scuotere la coscienza delle persone, cercare di vedere le cose positive e non focalizzarsi solo sulle problematiche. Non bisogna identificare la persona con la sua disabilità: io non sono la mia malattia, ma ho delle differenze che mi caratterizzano e che mi fanno affrontare la vita quotidiana in maniera diversa. La diversità può essere una mano speciale, così come un seno importante o un orecchio a sventola. Lo stereotipo però include il seno abbondante nella categoria della normalità, mentre la mano speciale ti fa rientrare nella categoria di persona diversamente abile. 

Sono riuscita ad accettarmi osservando gli altri, cercando di capire me stessa e che cosa riuscissi a fare con le mie abilità che si sono poi trasformate in risorse.  È una strada che va percorsa accettando anche gli scherni e le fatiche; per me è importante, nell’accettazione della disabilità, sviluppare le proprie forze e le proprie capacità, uscendo dalla propria zona di comfort ed evitando il vittimismo. Devo dire che io ho sempre avuto il coraggio di espormi: ho iniziato la ricerca del mio lavoro, verso la metà degli anni’80, come categoria protetta e mi proponevano impieghi negli archivi o in centralini, chiusa dentro a una stanza, perché nessuno ti doveva vedere. Allora mi sono detta che non mi interessava e ho iniziato a cercare posti di lavoro senza il filtro della categoria protetta. 

Come è stata la tua ricerca? Spesso avvengono delle categorizzazioni e stigmatizzazioni – per cui ad esempio per molto tempo la persona non vedente poteva lavorare solo al centralino – come se la disabilità mettesse in ombra le capacità e i desideri di cui ognuno è portatore.
La stigmatizzazione c’è e continua ad esserci perché da decenni ci sono dei preconcetti a un livello ancora che interessa la relazione con le persone con disabilità, anche all’interno degli enti, proprio a partire dalle commissioni che devono valutare chi far rientrare nelle categorie protette. Personalmente ho subito commissioni in cui non ti guardavano neanche in faccia perché partivano dal presupposto che qualsiasi tipo di disabilità automaticamente ti avrebbe reso meno produttivo. 

Quando poi affronti i colloqui con le aziende e le risorse del personale, il problema è sempre lo stesso, ovvero che il disabile è quasi sempre visto come la persona non abile. Bisogna cambiare paradigma: non ci sono persone non abili, perché se lo fossero, non andrebbero neanche a cercare lavoro, perché non ce la fanno. Una persona che si presenta a un colloquio, si sta già mettendo a disposizione e quindi dovrebbe essere valorizzato; poi bisogna capire effettivamente quali abilità e disabilità porta, ma come avviene per tutti. Invece, ragionare con i cluster è più comodo e più facile.
La conoscenza della persona dovrebbe essere al primo posto, ovvero cercare di capire che cosa può portare quella persona all’interno dell’azienda, sia essa in sedia a rotelle o con una mano speciale. 

Mi stupisco quando vedo che ci sono ancora delle paure e delle resistenze da parte delle aziende nell’assunzione delle persone con disabilità: dovrebbero concentrarsi sulla sensibilità, sull’entusiasmo e sulla forza di cui sono portatori, perché queste persone hanno voglia di riscatto. Si parla tanto di queste soft skills, come la capacità relazionale, e poi si lasciano in secondo piano rispetto alla produttività. Ho fatto tanti colloqui con chi seleziona il personale e le prime persone a non essere preparate ad affrontare questi temi sono proprio le aziende; purtroppo viviamo ancora in un mondo in cui la disabilità viene vista come un problema e qualcosa “da gestire”. Credo sia necessaria una presa di coscienza e la formazione di una cultura differente. Prima ancora di parlare di come inserire nel contesto lavorativo le persone con disabilità, bisognerebbe investire sull’educazione e sulla formazione. La conoscenza permette di valorizzare l’identità di ognuno, le peculiarità, le competenze specifiche: tutte cose che diventano un arricchimento per l’azienda e come in una catena generano valore, anche in termini di produttività. Se non si valorizzano le persone e si inseriscono in ruoli che non fanno emergere le loro potenzialità, allora è facile che anche i risultati non arrivino. Non bisogna partire dalle problematiche che una persona ha, ma da ciò che può offrire e donare all’azienda, inteso come investimento reciproco. 

C’è anche un’idea sbagliata che hanno le aziende sul fatto che modificare il contesto lavorativo per agevolare l’inserimento delle persone con disabilità significhi spendere per forza molti soldi; ma il più delle volte non è così. In tante situazioni non servono cambiamenti strutturali e radicali, ma semplici accomodamenti e facilitazioni che migliorano le condizioni per tutti i dipendenti. Certo, bisogna aver voglia di affrontare le complessità, ma per fortuna c’è anche chi lavora nella selezione del personale che non si fa spaventare da eventuali “problemi da risolvere”. Per fortuna ho incontrato anche chi mi ha detto: “se non è un problema per lei, perché lo deve essere per noi?” Questo è l’atteggiamento corretto. 

Mi sembra giusto sottolineare che in questi ultimi anni ci sono stati anche cambiamenti positivi ed è stato fatto qualche passo in avanti. Quali risultati sono stati raggiunti e che cosa è cambiato?
Da quando ho iniziato a lavorare, nella metà degli anni ’80, è cambiato moltissimo: c’è stata una grandissima apertura nell’accettazione della diversità. C’è stato un passo avanti anche nella legislazione: adesso le aziende hanno l’opportunità di accedere, all’interno delle categorie protette, ai vari curricula e ai diversi profili; è stata introdotta la possibilità di scegliere. Quando, invece, io mi sono affacciata al mondo del lavoro, esisteva una sorta di elenco indistinto e si dovevano assumere le persone che erano in cima alla graduatoria, a prescindere dalla tipologia di incarico. Il passo avanti è stato restituire un’autonomia di scelta, in termini di valorizzazione delle competenze di ciascuno, in primis alle persone con disabilità e di conseguenza anche alle aziende. La disabilità può essere considerata una risorsa, intesa proprio come diversa abilità; io, ad esempio, non mi sento disabile, ma diversamente abile.

Cos’è per te la disabilità e ti capita ancora ti sentirti diversamente abile?
Mi capita tutti i giorni di sentirmi diversamente abile perché devo continuamente colmare dei gap che esistono nella mia vita. La maggior parte delle attività manuali sono fatte per due mani e soprattutto per avere un potenziamento sulla mano destra e quindi ancora oggi un sacco di cose non le posso fare, ma ne sono fatta una ragione. Ho imparato a calibrare i miei movimenti quando ad esempio a un evento mi porgono un bicchiere e un piatto contemporaneamente oppure quando devo salutare le persone, cosa che nel mio lavoro capita spesso. La disabilità si affronta ogni giorno, però crescendo si impara a conviverci e a creare anche curiosità; è una responsabilità che riguarda ognuno di noi. Dall’altra parte anche le aziende dovrebbero promuovere a un pensiero empatico che porta sicuramente a benefici significativi.
Sono molto felice, per esempio, che la disabilità in questi anni sia stata smarcata fortissimamente dal mondo dello sport: ringrazio tantissimo gli sportivi perché grazie a loro molte persone si sono rese conto che forse se una persona con disabilità riesce a fare delle cose incredibili nello sport, allora perché non dovrebbe riuscire a farlo nella vita normale, dando il proprio contributo sia a livello professionale, sia a livello sociale? Tutto questo fa parte di un processo di comprensione, di formazione e di educazione, che a volte le persone non hanno tanta voglia di intraprendere. Valorizzare le differenze di cui ognuno è portatore genera valore e ricchezza, perché promuove il confronto e lo scambio reciproco, fondamentale per entrare in relazione. Si tratta di un cambiamento culturale, che dovrebbe iniziare dall’educazione dei bambini, attraverso l’insegnamento a guardare il mondo con occhi nuovi. Ai miei figli ho sempre spiegato che ognuno di noi è diverso e unico e quindi va rispettato in quanto essere umano; poi sono le relazioni e i comportamenti che ci fanno scegliere chi avere al nostro fianco, ma non i preconcetti. Il cambio di paradigma deve avvenire a tutti i livelli, a partire dalla famiglia, ma anche nel mondo lavorativo e i primi a doverci credere sono proprio gli HR Manager, responsabili degli inserimenti e dell’inclusione. 

In occasione di questa giornata, celebriamo la diversità e l’unicità di ogni individuo, grazie alle parole di Claudia. Attraverso l’attività di Superjob, ci sforziamo di abbattere pregiudizi e stereotipi per promuovere l’inclusione, riconoscendo il valore e la ricchezza di ogni persona, a prescindere dalla loro disabilità.

Sara Mesiano
Pedagogista

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