La storia di Claudia: la forza e il coraggio di esporsi
In occasione del 3 dicembre, Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità, Claudia Pallanca, membro del comitato scientifico di Superjob, account pubblicitario per grandi società editoriali e pubblicista, madre di due giovani ragazzi e impegnata nella politica locale del suo territorio, ha scritto un contributo per il nostro blog. In questa intervista riprendiamo alcuni degli argomenti che sono stati toccati e parliamo di disabilità, di inclusione lavorativa e di cambiamenti, attraverso il racconto della sua esperienza. La biografia di Claudia è la dimostrazione di quanto la disabilità non comprometta il raggiungimento di traguardi importanti e crediamo possa essere fonte d’ispirazione per superare i propri limiti e realizzare i propri desideri.
Claudia, raccontaci di te. Chi sei e di cosa ti occupi.
Ho 58 anni e sono da molti anni libera professionista; ho iniziato a lavorare nel marketing di aziende cosmetiche e poi sono passata alla pubblicità e alla comunicazione. Lavoro in un grande gruppo editoriale e mi occupo di seguire i piani media dei grandi clienti: i loro sviluppi, le loro attività e i loro lanci; ogni giorno ho a che fare con nuove persone che rappresentano nuove aziende.
Sono nata con una malformazione congenita alla mano destra che viene definita focomelia che sembrerebbe essere stata causata da un’aderenza fetale e quindi la mia mano destra non si è sviluppata correttamente. Questo tipo di problematica mi toglie le cinque dita della mano destra ed è stata considerata una disabilità abbastanza invalidante, dal momento che una delle due mani ha ridotto di molto le sue funzionalità. Nonostante il fatto di essere nata con questo tipo di “mancanza”, grazie soprattutto alla mia famiglia, che è stata molto severa, sono riuscita a sviluppare le manualità di tutti i giorni, accettando questa mia “lacuna” e sopperendo ad alcuni gesti con altri che mi hanno permesso di risolvere i problemi quotidiani. Questo è il mio modo di affrontare la vita da quando mi ricordo.
Come avviene l’accettazione di questa “mancanza” e la trasformazione in una risorsa, addirittura riuscendo a viverla come un’unicità? Non è un percorso scontato, perché ci sono molte persone che non ci riescono.
Sottolineo alcune parole che per me sono molto importanti. Nei primissimi anni di vita la famiglia è fondamentale. Per prime le persone che si sono prese cura di me mi hanno stimolato, alle volte quasi con “cattiveria”, ad affrontare questa mia unicità per imparare a rendermi davvero libera e capace di svolgere qualsiasi tipo di attività. Ti faccio un esempio, forse banale, ma che rende bene l’idea. Ricordo ancora la rabbia che provavo nel non riuscire ad allacciarmi le scarpe e mia madre mi diceva: “devi trovare il modo di imparare a farlo perché io potrei anche farlo per te, ma così tu non troveresti ma il tuo modo e il giorno in cui non ci dovessi essere, tu non sapresti come fare.”
Il ruolo del genitore è importante sia dal punto di vista pratico sia dal punto di vista emotivo: per primo il genitore deve essere in grado di comprendere che questa persona non ha nulla di sbagliato ma semplicemente è una persona diversa. Dobbiamo intanto partire dal presupposto che ognuno di noi è unico e diverso nella sua unicità e quindi i genitori e poi gli insegnati lo devono aiutare a valorizzare le proprie unicità e non a sentirsi una persona mancante di qualcosa.
Possiamo dire, quindi, che il primo percorso di accettazione lo deve fare la famiglia.
Assolutamente sì. Certo sto parlando di disabilità in questo caso congenite. Altra cosa sono le disabilità che subentrano durante la vita. In questo caso intervengono altre leve psicologiche molto più difficili perché ovviamente passare da una condizione ad un’altra in maniera improvvisa e repentina non è facile. Quando poi si cresce ci sono dei momenti nella vita in cui si fanno dei passaggi molto dolorosi: io ho fatto molto fatica ad accettarmi durante la pubertà quando ci si comincia a guardare e a confrontarsi con gli altri. Il problema è sempre l’adattamento agli stereotipi, qualsiasi siano, in relazione al periodo storico che si sta vivendo. Sono stata aiutata da persone che mi hanno sempre scosso: trovo che la cosa più importante sia quella di scuotere la coscienza delle persone, cercare di vedere le cose positive e non focalizzarsi solo sulle problematiche. Non bisogna identificare la persona con la sua disabilità: io non sono la mia malattia, ma ho delle differenze che mi caratterizzano e che mi fanno affrontare la vita quotidiana in maniera diversa. La diversità può essere una mano speciale, così come un seno importante o un orecchio a sventola. Lo stereotipo però include il seno abbondante nella categoria della normalità, mentre la mano speciale ti fa rientrare nella categoria di persona diversamente abile.
Sono riuscita ad accettarmi osservando gli altri, cercando di capire me stessa e che cosa riuscissi a fare con le mie abilità che si sono poi trasformate in risorse. È una strada che va percorsa accettando anche gli scherni e le fatiche; per me è importante, nell’accettazione della disabilità, sviluppare le proprie forze e le proprie capacità, uscendo dalla propria zona di comfort ed evitando il vittimismo. Devo dire che io ho sempre avuto il coraggio di espormi: ho iniziato la ricerca del mio lavoro, verso la metà degli anni’80, come categoria protetta e mi proponevano impieghi negli archivi o in centralini, chiusa dentro a una stanza, perché nessuno ti doveva vedere. Allora mi sono detta che non mi interessava e ho iniziato a cercare posti di lavoro senza il filtro della categoria protetta.
Come è stata la tua ricerca? Spesso avvengono delle categorizzazioni e stigmatizzazioni – per cui ad esempio per molto tempo la persona non vedente poteva lavorare solo al centralino – come se la disabilità mettesse in ombra le capacità e i desideri di cui ognuno è portatore.
La stigmatizzazione c’è e continua ad esserci perché da decenni ci sono dei preconcetti a un livello ancora che interessa la relazione con le persone con disabilità, anche all’interno degli enti, proprio a partire dalle commissioni che devono valutare chi far rientrare nelle categorie protette. Personalmente ho subito commissioni in cui non ti guardavano neanche in faccia perché partivano dal presupposto che qualsiasi tipo di disabilità automaticamente ti avrebbe reso meno produttivo.
Quando poi affronti i colloqui con le aziende e le risorse del personale, il problema è sempre lo stesso, ovvero che il disabile è quasi sempre visto come la persona non abile. Bisogna cambiare paradigma: non ci sono persone non abili, perché se lo fossero, non andrebbero neanche a cercare lavoro, perché non ce la fanno. Una persona che si presenta a un colloquio, si sta già mettendo a disposizione e quindi dovrebbe essere valorizzato; poi bisogna capire effettivamente quali abilità e disabilità porta, ma come avviene per tutti. Invece, ragionare con i cluster è più comodo e più facile.
La conoscenza della persona dovrebbe essere al primo posto, ovvero cercare di capire che cosa può portare quella persona all’interno dell’azienda, sia essa in sedia a rotelle o con una mano speciale.
Mi stupisco quando vedo che ci sono ancora delle paure e delle resistenze da parte delle aziende nell’assunzione delle persone con disabilità: dovrebbero concentrarsi sulla sensibilità, sull’entusiasmo e sulla forza di cui sono portatori, perché queste persone hanno voglia di riscatto. Si parla tanto di queste soft skills, come la capacità relazionale, e poi si lasciano in secondo piano rispetto alla produttività. Ho fatto tanti colloqui con chi seleziona il personale e le prime persone a non essere preparate ad affrontare questi temi sono proprio le aziende; purtroppo viviamo ancora in un mondo in cui la disabilità viene vista come un problema e qualcosa “da gestire”. Credo sia necessaria una presa di coscienza e la formazione di una cultura differente. Prima ancora di parlare di come inserire nel contesto lavorativo le persone con disabilità, bisognerebbe investire sull’educazione e sulla formazione. La conoscenza permette di valorizzare l’identità di ognuno, le peculiarità, le competenze specifiche: tutte cose che diventano un arricchimento per l’azienda e come in una catena generano valore, anche in termini di produttività. Se non si valorizzano le persone e si inseriscono in ruoli che non fanno emergere le loro potenzialità, allora è facile che anche i risultati non arrivino. Non bisogna partire dalle problematiche che una persona ha, ma da ciò che può offrire e donare all’azienda, inteso come investimento reciproco.
C’è anche un’idea sbagliata che hanno le aziende sul fatto che modificare il contesto lavorativo per agevolare l’inserimento delle persone con disabilità significhi spendere per forza molti soldi; ma il più delle volte non è così. In tante situazioni non servono cambiamenti strutturali e radicali, ma semplici accomodamenti e facilitazioni che migliorano le condizioni per tutti i dipendenti. Certo, bisogna aver voglia di affrontare le complessità, ma per fortuna c’è anche chi lavora nella selezione del personale che non si fa spaventare da eventuali “problemi da risolvere”. Per fortuna ho incontrato anche chi mi ha detto: “se non è un problema per lei, perché lo deve essere per noi?” Questo è l’atteggiamento corretto.
Mi sembra giusto sottolineare che in questi ultimi anni ci sono stati anche cambiamenti positivi ed è stato fatto qualche passo in avanti. Quali risultati sono stati raggiunti e che cosa è cambiato?
Da quando ho iniziato a lavorare, nella metà degli anni ’80, è cambiato moltissimo: c’è stata una grandissima apertura nell’accettazione della diversità. C’è stato un passo avanti anche nella legislazione: adesso le aziende hanno l’opportunità di accedere, all’interno delle categorie protette, ai vari curricula e ai diversi profili; è stata introdotta la possibilità di scegliere. Quando, invece, io mi sono affacciata al mondo del lavoro, esisteva una sorta di elenco indistinto e si dovevano assumere le persone che erano in cima alla graduatoria, a prescindere dalla tipologia di incarico. Il passo avanti è stato restituire un’autonomia di scelta, in termini di valorizzazione delle competenze di ciascuno, in primis alle persone con disabilità e di conseguenza anche alle aziende. La disabilità può essere considerata una risorsa, intesa proprio come diversa abilità; io, ad esempio, non mi sento disabile, ma diversamente abile.
Cos’è per te la disabilità e ti capita ancora ti sentirti diversamente abile?
Mi capita tutti i giorni di sentirmi diversamente abile perché devo continuamente colmare dei gap che esistono nella mia vita. La maggior parte delle attività manuali sono fatte per due mani e soprattutto per avere un potenziamento sulla mano destra e quindi ancora oggi un sacco di cose non le posso fare, ma ne sono fatta una ragione. Ho imparato a calibrare i miei movimenti quando ad esempio a un evento mi porgono un bicchiere e un piatto contemporaneamente oppure quando devo salutare le persone, cosa che nel mio lavoro capita spesso. La disabilità si affronta ogni giorno, però crescendo si impara a conviverci e a creare anche curiosità; è una responsabilità che riguarda ognuno di noi. Dall’altra parte anche le aziende dovrebbero promuovere a un pensiero empatico che porta sicuramente a benefici significativi.
Sono molto felice, per esempio, che la disabilità in questi anni sia stata smarcata fortissimamente dal mondo dello sport: ringrazio tantissimo gli sportivi perché grazie a loro molte persone si sono rese conto che forse se una persona con disabilità riesce a fare delle cose incredibili nello sport, allora perché non dovrebbe riuscire a farlo nella vita normale, dando il proprio contributo sia a livello professionale, sia a livello sociale? Tutto questo fa parte di un processo di comprensione, di formazione e di educazione, che a volte le persone non hanno tanta voglia di intraprendere. Valorizzare le differenze di cui ognuno è portatore genera valore e ricchezza, perché promuove il confronto e lo scambio reciproco, fondamentale per entrare in relazione. Si tratta di un cambiamento culturale, che dovrebbe iniziare dall’educazione dei bambini, attraverso l’insegnamento a guardare il mondo con occhi nuovi. Ai miei figli ho sempre spiegato che ognuno di noi è diverso e unico e quindi va rispettato in quanto essere umano; poi sono le relazioni e i comportamenti che ci fanno scegliere chi avere al nostro fianco, ma non i preconcetti. Il cambio di paradigma deve avvenire a tutti i livelli, a partire dalla famiglia, ma anche nel mondo lavorativo e i primi a doverci credere sono proprio gli HR Manager, responsabili degli inserimenti e dell’inclusione.
In occasione di questa giornata, celebriamo la diversità e l’unicità di ogni individuo, grazie alle parole di Claudia. Attraverso l’attività di Superjob, ci sforziamo di abbattere pregiudizi e stereotipi per promuovere l’inclusione, riconoscendo il valore e la ricchezza di ogni persona, a prescindere dalla loro disabilità.
Sara Mesiano
Pedagogista