Le disabilità invisibili

Le disabilità invisibili

“Perché parcheggia nello stallo riservato alle persone con disabilità, se cammina?”

Questa è una frase di tipo discriminatorio quando si giudica una persona con disabilità invisibile. La rappresentazione più comune, per preconcetti e stereotipi sociali, della persona con disabilità consiste in un’immagine standard che propone l’utilizzo di ausili ben visibili, come carrozzina, protesi, stampelle o bastone. Ed è qui che, più o meno inconsapevolmente, si compie una forma di discriminazione velata: considerare una persona con disabilità (etichetta) solo se rimane incasellata in alcune skills fuorvianti.

Secondo l’Istat il numero totale delle persone con disabilità si aggira intorno ai 13 milioni, di cui circa 3 milioni presentano una disabilità grave. Questo numero corrisponde a circa il 21% della popolazione italiana e include un’ampia gamma di disabilità, da quella più grave a quella con minori limitazioni e ripercussioni sulla vita quotidiana, comprese malattie croniche, tumori, demenze e disturbi del comportamento. In molti casi, la condizione di disabilità è dettata da una situazione che limita e vincola la quotidianità, che può essere poco visibile e non intuibile se la persona non lo dichiara. Le cosiddette disabilità invisibili, tema poco affrontato e sommerso, sono tutte quelle menomazioni fisiche, mentali o emotive che il più delle volte passano inosservate.

Generalmente si pensa che la disabilità sia un problema lontano, che colpisce poche persone, ma le statistiche raccontano che non è così. Il 96% delle persone con condizioni mediche croniche vivono con una malattia che è invisibile; alcuni esempi sono la fibromialgia, l’endometriosi, l’epilessia o il diabete. Le disabilità invisibili trasformano in fantasmi chiunque si ritrovi a doverle fronteggiare.

È imperativo riconoscere anche queste disabilità, in primo luogo, per ridurre lo stigma e aumentare la comprensione; infatti, il 46% delle persone in Italia dichiara di non aver rivelato la propria condizione sul posto di lavoro per timore di eventuali discriminazioni e pregiudizi. Le persone con disabilità invisibili possono essere giudicate o fraintese da altri, che non capiscono le loro difficoltà.  Il malato invisibile è costretto a giustificarsi e a spiegare che cosa gli accade, vedendo costantemente messa in dubbio la propria credibilità: è qualcosa che porta grande disagio e sovente anche un senso di umiliazione. Attraverso la conoscenza, si crea una società più solidale ed inclusiva e si può fornire il sostegno di cui hanno bisogno. Inoltre, si evitano le generalizzazioni e si impara ad osservare tutte le sfumature, che non sono solo quelle dei colori primari.

Per le persone con disabilità invisibile può essere difficile parlare della propria situazione, soprattutto nel contesto lavorativo, che mira alla perfomance e alla produzione, azioni che possono risultare molto complicate in questi casi. Ecco perché la priorità è parlarne, in quanto conoscere la situazione permette all’impresa di adattare l’ambiente e fornire i necessari supporti per lavorare tutti al meglio.

Parlare serve alle persone con disabilità, che possono sentirsi finalmente comprese e visibili e alle aziende che possono trovare delle strategie per ottenere un luogo di lavoro più confortevole.

Nel 2016 l’associazione britannica Hidden Disabilities ha ideato un modo per rendere note queste disabilità che non si vedono a occhio nudo: un cordino di quelli per appendere i badge, verde con disegnati sopra dei girasoli. È usato in molti paesi, tra cui l’Italia, ad esempio al Museo Egizio di Torino, per segnalare che si ha diritto a un’assistenza particolare o a una precedenza, perché si sta usufruendo di corsie o parcheggi riservati, o semplicemente se in fila al supermercato ci vuole un po’ più di tempo per insacchettare la spesa. Oltre a segnalare in modo discreto il proprio bisogno di assistenza, il cordino coi girasoli può servire a indicare che c‘è un motivo se si sta usufruendo di corsie o parcheggi riservati, evitando accuse e pregiudizi.

A cura di Sara Mesiano

Le sfide da affrontare per accorciare le distanze tra mondo del lavoro e mondo della disabilità

Le sfide da affrontare per accorciare le distanze tra mondo del lavoro e mondo della disabilità

L’articolo 27 Della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità riconosce loro il diritto al lavoro su base di eguaglianza; questo significa che il lavoro dovrebbe essere scelto liberamente, dovrebbe permettere alla persona di mantenersi e dovrebbe avvenire in un ambiente in grado di garantire inclusione e accessibilità.

Su questo aspetto, la normativa italiana in materia (Legge 68/1999), è molto avanzata, ma allo stesso tempo rimangono alcune criticità. Il focus permane sulla disabilità – anche gli annunci di lavoro ne sono una rappresentazione: in primo piano ci sono le difficoltà e le barriere, spesso ci si dimentica che queste non dovrebbero essere un “problema” delle persone con disabilità, ma al contrario sono l’evidenza dell’incapacità della società di adattarsi ai bisogni di tutti. Quest’eguaglianza, quindi, prevista dalla Convenzione e tanto desiderata, non c’è ancora. Per ottenerla, il focus si deve spostare sulla persona e non sulla sua disabilità: solo così il mondo del lavoro potrà essere veramente aperto e garantire dignità a ogni individuo. Un esempio è l’accomodamento ragionevole, ovvero quell’aggiustamento necessario che possa permettere alla persona con disabilità di esercitare il proprio diritto sulla base di eguaglianza con gli altri. Il punto di partenza, però, per l’utilizzo di questo facilitatore è la disponibilità delle aziende e dei datori di lavoro.

Le prime sfide da affrontare per avvicinare mondo del lavoro e disabilità sono la discriminazione e l’inferiorizzazione. C’è un’idea implicita, che riguarda tutti, che pensa alla disabilità come a una condizione umana di inferiorità e per nulla desiderabile. Il più delle volte le persone vengono identificate con i propri bisogni e si pensa di poter decidere per loro, perché li si considera “non in grado”, di fatto inabili. Ma perché succede questo? Da dove proviene questa convinzione?

La disabilità è un tema universale in quanto riguarda il funzionamento del corpo, un corpo che abbiamo tutti e attraverso il quale ci relazioniamo con il mondo. La mitologia, la letteratura classica, l’iconografia medioevale, la riflessione filosofica del Sei e del Settecento mostrano un’immagine negata, svalutata e occultata del corpo del disabile, perché malato, debole, deforme e di conseguenza stigmatizzato. Tutti coloro che hanno un deficit fisico o mentale, nell’età antica e nel Medioevo, vengono allontanati dai normali circuiti della vita sociale e condannati ad uno stato di emarginazione; la deformità o la debolezza del corpo viene assimilata ad una colpa personale, da espiare con l’esposizione o con l’abbandono. La disabilità è sempre stata un problema per la società, che per progredire doveva contare su corpi conformi e performanti. Anche per questo motivo l’arte l’ha associata spesso a concetti e personaggi negativi; basti pensare alla rappresentazione della malattia mentale nei volti mostruosi degli schizzi di Leonardo da Vinci. Da questo immaginario tramandato deriva la visione parziale e abilista che ci portiamo in eredità fin dai tempi antichi.

Solo dagli ultimi decenni dell’Ottocento inizia una rivalutazione del corpo che prosegue nel Novecento con gli studi sulla psicomotricità e un approccio scientifico allo studio delle diverse disabilità. In linea con questi cambiamenti, muta anche l’immaginario: Victor Hugo, ad esempio, racconta la storia del “gobbo di Notre Dame”, tratteggiando un personaggio dall’animo tormentato e apparentemente meschino, che è però una conseguenza di come lo tratta la società e che nasconde, al contrario, un temperamento in grado di amare e sacrificarsi per l’altro.

Se guardiamo a oggi e arriviamo al cinema, incontriamo una rappresentazione della disabilità che si polarizza: da una parte personaggi intrinsecamente malvagi, come Joker, in cui la malattia mentale lo rende un vero e proprio genio del male, dall’altra iper-virtuosi, quasi dei supereroi, che per compensare la propria disabilità, sviluppano capacità eccezionali, come Forrest Gump o Rain Man.

È come se si fosse passati dall’occultamento alla spettacolarizzazione, là dove continua a mancare un racconto autentico dell’esperienza umana.

Allora per costruire forme di inclusione, che vogliano davvero integrare, per modificare un immaginario radicato nella nostra storia e per abbattere l’idea che le persone con disabilità siano in una condizione di inferiorità e identificate con la loro diagnosi, è necessario costruire relazioni e aprire un confronto che possa ampliare l’orizzonte di possibilità di ogni individuo.

Essere consapevoli dell’abilismo, soprattutto quando è interiorizzato, è fondamentale per cambiare il linguaggio e di conseguenza le dinamiche mentali con le quali la società si approccia al tema della disabilità.

I manager possono chiedersi perché dovrebbero assumere una persona con disabilità visto che potrebbero assumerne una senza. La risposta è che le imprese non devono assumere una persona con disabilità ma piuttosto una persona che possieda le competenze richieste per quella determinata posizione, se poi succede che ha delle disabilità, allora ci si chiede come affrontarle, ma la questione parte proprio da un presupposto ribaltato. Al primo posto ci sono sempre le persone, ognuna con la propria storia, e questo non ci stancheremo mai di dirlo.

Un ambiente di lavoro in cui ogni individuo può esprimere il meglio di sé e dove, chiunque, a prescindere dalle sue condizioni personali, si sente sicuro e protetto, è vincente anche da un punto di vista economico perché è più creativo, più efficiente e apporta un netto miglioramento all’immagine dell’azienda presso il personale, gli stakeholders e la clientela. Infatti, una politica aziendale totalmente inclusiva dà l’opportunità al management di contare su un range più ampio di talenti e riduce il turnover. La via da percorrere sta nella parola “diversità” e la vera domanda da farsi è quali sono gli svantaggi di un ambiente non inclusivo. E sono tanti a partire dalle barriere che vengono erette anziché abbattute. Da qui a cascata si possono generare una serie di conseguenze negative in termini di realizzazione personale, qualità delle relazioni e dedizione al proprio lavoro.

Ecco perché è importante sostenere e promuovere la differenza: Don Milani, docente ed educatore degli anni Sessanta del Novecento diceva che “nulla è più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali.

Sara Mesiano
Pedagogista

La storia di Claudia: la forza e il coraggio di esporsi 

La storia di Claudia: la forza e il coraggio di esporsi 

In occasione del 3 dicembre, Giornata internazionale dei diritti delle persone con disabilità, Claudia Pallanca, membro del comitato scientifico di Superjob, account pubblicitario per grandi società editoriali e pubblicista, madre di due giovani ragazzi e impegnata nella politica locale del suo territorio, ha scritto un contributo per il nostro blog. In questa intervista riprendiamo alcuni degli argomenti che sono stati toccati e parliamo di disabilità, di inclusione lavorativa e di cambiamenti, attraverso il racconto della sua esperienza. La biografia di Claudia è la dimostrazione di quanto la disabilità non comprometta il raggiungimento di traguardi importanti e crediamo possa essere fonte d’ispirazione per superare i propri limiti e realizzare i propri desideri. 

Claudia, raccontaci di te. Chi sei e di cosa ti occupi.
Ho 58 anni e sono da molti anni libera professionista; ho iniziato a lavorare nel marketing di aziende cosmetiche e poi sono passata alla pubblicità e alla comunicazione. Lavoro in un grande gruppo editoriale e mi occupo di seguire i piani media dei grandi clienti: i loro sviluppi, le loro attività e i loro lanci; ogni giorno ho a che fare con nuove persone che rappresentano nuove aziende. 

Sono nata con una malformazione congenita alla mano destra che viene definita focomelia che sembrerebbe essere stata causata da un’aderenza fetale e quindi la mia mano destra non si è sviluppata correttamente. Questo tipo di problematica mi toglie le cinque dita della mano destra ed è stata considerata una disabilità abbastanza invalidante, dal momento che una delle due mani ha ridotto di molto le sue funzionalità. Nonostante il fatto di essere nata con questo tipo di “mancanza”, grazie soprattutto alla mia famiglia, che è stata molto severa, sono riuscita a sviluppare le manualità di tutti i giorni, accettando questa mia “lacuna” e sopperendo ad alcuni gesti con altri che mi hanno permesso di risolvere i problemi quotidiani. Questo è il mio modo di affrontare la vita da quando mi ricordo. 

Come avviene l’accettazione di questa “mancanza” e la trasformazione in una risorsa, addirittura riuscendo a viverla come un’unicità? Non è un percorso scontato, perché ci sono molte persone che non ci riescono.
Sottolineo alcune parole che per me sono molto importanti. Nei primissimi anni di vita la famiglia è fondamentale. Per prime le persone che si sono prese cura di me mi hanno stimolato, alle volte quasi con “cattiveria”, ad affrontare questa mia unicità per imparare a rendermi davvero libera e capace di svolgere qualsiasi tipo di attività. Ti faccio un esempio, forse banale, ma che rende bene l’idea. Ricordo ancora la rabbia che provavo nel non riuscire ad allacciarmi le scarpe e mia madre mi diceva: “devi trovare il modo di imparare a farlo perché io potrei anche farlo per te, ma così tu non troveresti ma il tuo modo e il giorno in cui non ci dovessi essere, tu non sapresti come fare.” 

Il ruolo del genitore è importante sia dal punto di vista pratico sia dal punto di vista emotivo: per primo il genitore deve essere in grado di comprendere che questa persona non ha nulla di sbagliato ma semplicemente è una persona diversa. Dobbiamo intanto partire dal presupposto che ognuno di noi è unico e diverso nella sua unicità e quindi i genitori e poi gli insegnati lo devono aiutare a valorizzare le proprie unicità e non a sentirsi una persona mancante di qualcosa. 

Possiamo dire, quindi, che il primo percorso di accettazione lo deve fare la famiglia.
Assolutamente sì. Certo sto parlando di disabilità in questo caso congenite. Altra cosa sono le disabilità che subentrano durante la vita. In questo caso intervengono altre leve psicologiche molto più difficili perché ovviamente passare da una condizione ad un’altra in maniera improvvisa e repentina non è facile. Quando poi si cresce ci sono dei momenti nella vita in cui si fanno dei passaggi molto dolorosi: io ho fatto molto fatica ad accettarmi durante la pubertà quando ci si comincia a guardare e a confrontarsi con gli altri. Il problema è sempre l’adattamento agli stereotipi, qualsiasi siano, in relazione al periodo storico che si sta vivendo. Sono stata aiutata da persone che mi hanno sempre scosso: trovo che la cosa più importante sia quella di scuotere la coscienza delle persone, cercare di vedere le cose positive e non focalizzarsi solo sulle problematiche. Non bisogna identificare la persona con la sua disabilità: io non sono la mia malattia, ma ho delle differenze che mi caratterizzano e che mi fanno affrontare la vita quotidiana in maniera diversa. La diversità può essere una mano speciale, così come un seno importante o un orecchio a sventola. Lo stereotipo però include il seno abbondante nella categoria della normalità, mentre la mano speciale ti fa rientrare nella categoria di persona diversamente abile. 

Sono riuscita ad accettarmi osservando gli altri, cercando di capire me stessa e che cosa riuscissi a fare con le mie abilità che si sono poi trasformate in risorse.  È una strada che va percorsa accettando anche gli scherni e le fatiche; per me è importante, nell’accettazione della disabilità, sviluppare le proprie forze e le proprie capacità, uscendo dalla propria zona di comfort ed evitando il vittimismo. Devo dire che io ho sempre avuto il coraggio di espormi: ho iniziato la ricerca del mio lavoro, verso la metà degli anni’80, come categoria protetta e mi proponevano impieghi negli archivi o in centralini, chiusa dentro a una stanza, perché nessuno ti doveva vedere. Allora mi sono detta che non mi interessava e ho iniziato a cercare posti di lavoro senza il filtro della categoria protetta. 

Come è stata la tua ricerca? Spesso avvengono delle categorizzazioni e stigmatizzazioni – per cui ad esempio per molto tempo la persona non vedente poteva lavorare solo al centralino – come se la disabilità mettesse in ombra le capacità e i desideri di cui ognuno è portatore.
La stigmatizzazione c’è e continua ad esserci perché da decenni ci sono dei preconcetti a un livello ancora che interessa la relazione con le persone con disabilità, anche all’interno degli enti, proprio a partire dalle commissioni che devono valutare chi far rientrare nelle categorie protette. Personalmente ho subito commissioni in cui non ti guardavano neanche in faccia perché partivano dal presupposto che qualsiasi tipo di disabilità automaticamente ti avrebbe reso meno produttivo. 

Quando poi affronti i colloqui con le aziende e le risorse del personale, il problema è sempre lo stesso, ovvero che il disabile è quasi sempre visto come la persona non abile. Bisogna cambiare paradigma: non ci sono persone non abili, perché se lo fossero, non andrebbero neanche a cercare lavoro, perché non ce la fanno. Una persona che si presenta a un colloquio, si sta già mettendo a disposizione e quindi dovrebbe essere valorizzato; poi bisogna capire effettivamente quali abilità e disabilità porta, ma come avviene per tutti. Invece, ragionare con i cluster è più comodo e più facile.
La conoscenza della persona dovrebbe essere al primo posto, ovvero cercare di capire che cosa può portare quella persona all’interno dell’azienda, sia essa in sedia a rotelle o con una mano speciale. 

Mi stupisco quando vedo che ci sono ancora delle paure e delle resistenze da parte delle aziende nell’assunzione delle persone con disabilità: dovrebbero concentrarsi sulla sensibilità, sull’entusiasmo e sulla forza di cui sono portatori, perché queste persone hanno voglia di riscatto. Si parla tanto di queste soft skills, come la capacità relazionale, e poi si lasciano in secondo piano rispetto alla produttività. Ho fatto tanti colloqui con chi seleziona il personale e le prime persone a non essere preparate ad affrontare questi temi sono proprio le aziende; purtroppo viviamo ancora in un mondo in cui la disabilità viene vista come un problema e qualcosa “da gestire”. Credo sia necessaria una presa di coscienza e la formazione di una cultura differente. Prima ancora di parlare di come inserire nel contesto lavorativo le persone con disabilità, bisognerebbe investire sull’educazione e sulla formazione. La conoscenza permette di valorizzare l’identità di ognuno, le peculiarità, le competenze specifiche: tutte cose che diventano un arricchimento per l’azienda e come in una catena generano valore, anche in termini di produttività. Se non si valorizzano le persone e si inseriscono in ruoli che non fanno emergere le loro potenzialità, allora è facile che anche i risultati non arrivino. Non bisogna partire dalle problematiche che una persona ha, ma da ciò che può offrire e donare all’azienda, inteso come investimento reciproco. 

C’è anche un’idea sbagliata che hanno le aziende sul fatto che modificare il contesto lavorativo per agevolare l’inserimento delle persone con disabilità significhi spendere per forza molti soldi; ma il più delle volte non è così. In tante situazioni non servono cambiamenti strutturali e radicali, ma semplici accomodamenti e facilitazioni che migliorano le condizioni per tutti i dipendenti. Certo, bisogna aver voglia di affrontare le complessità, ma per fortuna c’è anche chi lavora nella selezione del personale che non si fa spaventare da eventuali “problemi da risolvere”. Per fortuna ho incontrato anche chi mi ha detto: “se non è un problema per lei, perché lo deve essere per noi?” Questo è l’atteggiamento corretto. 

Mi sembra giusto sottolineare che in questi ultimi anni ci sono stati anche cambiamenti positivi ed è stato fatto qualche passo in avanti. Quali risultati sono stati raggiunti e che cosa è cambiato?
Da quando ho iniziato a lavorare, nella metà degli anni ’80, è cambiato moltissimo: c’è stata una grandissima apertura nell’accettazione della diversità. C’è stato un passo avanti anche nella legislazione: adesso le aziende hanno l’opportunità di accedere, all’interno delle categorie protette, ai vari curricula e ai diversi profili; è stata introdotta la possibilità di scegliere. Quando, invece, io mi sono affacciata al mondo del lavoro, esisteva una sorta di elenco indistinto e si dovevano assumere le persone che erano in cima alla graduatoria, a prescindere dalla tipologia di incarico. Il passo avanti è stato restituire un’autonomia di scelta, in termini di valorizzazione delle competenze di ciascuno, in primis alle persone con disabilità e di conseguenza anche alle aziende. La disabilità può essere considerata una risorsa, intesa proprio come diversa abilità; io, ad esempio, non mi sento disabile, ma diversamente abile.

Cos’è per te la disabilità e ti capita ancora ti sentirti diversamente abile?
Mi capita tutti i giorni di sentirmi diversamente abile perché devo continuamente colmare dei gap che esistono nella mia vita. La maggior parte delle attività manuali sono fatte per due mani e soprattutto per avere un potenziamento sulla mano destra e quindi ancora oggi un sacco di cose non le posso fare, ma ne sono fatta una ragione. Ho imparato a calibrare i miei movimenti quando ad esempio a un evento mi porgono un bicchiere e un piatto contemporaneamente oppure quando devo salutare le persone, cosa che nel mio lavoro capita spesso. La disabilità si affronta ogni giorno, però crescendo si impara a conviverci e a creare anche curiosità; è una responsabilità che riguarda ognuno di noi. Dall’altra parte anche le aziende dovrebbero promuovere a un pensiero empatico che porta sicuramente a benefici significativi.
Sono molto felice, per esempio, che la disabilità in questi anni sia stata smarcata fortissimamente dal mondo dello sport: ringrazio tantissimo gli sportivi perché grazie a loro molte persone si sono rese conto che forse se una persona con disabilità riesce a fare delle cose incredibili nello sport, allora perché non dovrebbe riuscire a farlo nella vita normale, dando il proprio contributo sia a livello professionale, sia a livello sociale? Tutto questo fa parte di un processo di comprensione, di formazione e di educazione, che a volte le persone non hanno tanta voglia di intraprendere. Valorizzare le differenze di cui ognuno è portatore genera valore e ricchezza, perché promuove il confronto e lo scambio reciproco, fondamentale per entrare in relazione. Si tratta di un cambiamento culturale, che dovrebbe iniziare dall’educazione dei bambini, attraverso l’insegnamento a guardare il mondo con occhi nuovi. Ai miei figli ho sempre spiegato che ognuno di noi è diverso e unico e quindi va rispettato in quanto essere umano; poi sono le relazioni e i comportamenti che ci fanno scegliere chi avere al nostro fianco, ma non i preconcetti. Il cambio di paradigma deve avvenire a tutti i livelli, a partire dalla famiglia, ma anche nel mondo lavorativo e i primi a doverci credere sono proprio gli HR Manager, responsabili degli inserimenti e dell’inclusione. 

In occasione di questa giornata, celebriamo la diversità e l’unicità di ogni individuo, grazie alle parole di Claudia. Attraverso l’attività di Superjob, ci sforziamo di abbattere pregiudizi e stereotipi per promuovere l’inclusione, riconoscendo il valore e la ricchezza di ogni persona, a prescindere dalla loro disabilità.

Sara Mesiano
Pedagogista

Sport e disabilità: uno sguardo che può salvare

Sport e disabilità: uno sguardo che può salvare

L’inclusione, intesa come processo, diventa la ricerca di un itinerario e di una pista per una possibile crescita della persona, per offrire occasioni espressive per e nella quotidianità. In tal senso, lo sport può diventare, per le persone con disabilità, un luogo nel quale darsi il permesso di sbagliare, tentare, rischiare, rialzarsi e scoprirsi. 

Ma cosa si intende quando si parla di sport? La parola in sé ha un ampio significato e deriva dal latino, dal termine deportare, che significa “uscire fuori porta”: ovvero uscire dalle mura cittadine per dedicarsi a tutte quelle attività fisiche e mentali che oggi vengono chiamate sportive e il cui scopo principale è di procurare piacere. In seguito, il termine, attraverso lo spagnolo, il francese e l’inglese, assume il significato più ampio di divertimento e svago. Nella sua definizione generale si può dire, quindi, che lo sport è un’esperienza di vita vissuta che si intreccia inevitabilmente all’intera sfera esistenziale umana.

 

L’idea che lo sport promuova un benessere fisico e psico-emotivo è ormai riconosciuta, ma è necessario pensare allo sport anche in termini di diritto, promuovendone il suo ruolo e valore per l’espressione della persona, riconoscendone l’universalità nel permettere l’incontro con l’Altro. Per la prima volta nella Carta Europea dello Sport per Tutti: le persone disabili (1987), si amplifica il concetto di “sport per tutti”, estendendone i benefici al maggior numero di persone possibile. Nel 1992, la Legge 104 – Legge Quadro in materia di disabilità in Italia – pone l’accento sul tema del diritto allo sport e della rimozione di tutti quegli ostacoli che impediscono l’esercizio delle attività sportive. Lo sport ha, quindi, il compito di diventare un’occasione di partecipazione alla vita sociale, di tolleranza, di accettazione delle differenze e di rispetto delle regole. Nelle ultime modifiche dei disegni di legge si vuole sottolineare il valore educativo della pratica sportiva, per la crescita e la formazione dell’individuo.

 

Educarsi ed educare

Lo sport può diventare un ambiente privilegiato per sperimentare la relazione educativa, nei termini di incontro e apertura all’Altro. Occorre riflettere non solo su ciò che è possibile imparare dallo sport, ma anche nello sport e con lo sport, mettendo al centro l’individuo come soggetto attivo, partecipe e libero di scegliere. Lo sport non è di per sé educativo, ma lo diventa nel momento in cui promuove relazioni di qualità, sia asimmetriche. -come quelle tra atleta e allenatore – sia simmetriche, tra compagni di squadra.

L’ambito pedagogico speciale, che per tradizione ha indagato soprattutto la scuola e l’infanzia, oggi si sta sempre più espandendo – coerentemente con quanto esprime la recente “Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità” – alle problematiche che emergono in relazione all’integrazione lavorativa e al diritto allo svago e al tempo libero, volte alla ricerca di un’identità adulta per la persona con disabilità. All’interno di questo orizzonte, si può valorizzare la valenza formativa della dimensione corporea, la valenza sociale ed educativa dello sport per i diversamente abili e la ragione di esistere del Movimento Paralimpico come fenomeno sociale ed educativo. Ludwig Guttmann, padre delle Paralimpiadi, credeva nel valore terapeutico dello sport, come la forma più naturale di rieducazione, non solo perché in grado di migliorare le performances di concentrazione, coordinazione motoria e debolezza muscolare, ma soprattutto perché ha colto nell’uso disciplinato della pratica sportiva l’affiorare della dimensione ludica e agonistica che sollecita la volontà della persona con disabilità, andando oltre i tradizionali metodi di fisioterapia.

Negli ultimi anni, il corpo della persona diversamente abile è presentato nello sport attraverso immagini positive, di piena integrazione e di partecipazione sociale, come quelle offerte ad esempio da Alex Zanardi. Tali immagini possono aiutare a produrre un nuovo immaginario sulla disabilità, facendo maturare la comprensione che essa trascende la singolarità individuale, nel momento in cui la diversità, anche nel corpo, caratterizza intrinsecamente ogni individuo.

Sara Mesiano
Pedagogista

Il Ruolo Positivo dei Fratelli di Bambini con Disabilità

Il Ruolo Positivo dei Fratelli di Bambini con Disabilità

Chi sono i sibling

Si fa spesso riferimento ai caregiver familiari che si occupano della cura e dell’assistenza di un congiunto fragile. Tuttavia, si parla poco di un tipo specifico di caregiver: i giovani o giovanissimi caregiver, fratelli o sorelli di bambini con disabilità. Quando si parla di queste figure si usa il termine sibling.

Anni fa, i ricercatori consideravano i fratelli di bambini con disabilità come una categoria svantaggiata. Da allora, numerose ricerche dimostrano che quando i bambini aiutano con l’educazione di un fratello o una sorella con disabilità, i risultati sono spesso positivi per entrambi.
Questa nuova visione riconosce i punti di forza che i bambini possono trarre dall’avere un fratello con disabilità, come una maggiore adattabilità, empatia e tolleranza.

L’importanza dell’informazione

“La prima cosa da fare è riconoscere che l’esperienza dei fratelli è parallela a quella dei genitori”, ha affermato Emily Holl, direttrice del Sibling Support Project, un programma americano che si occupa di fornire supporto ai fratelli di persone con disabilità. Come gli adulti, anche i bambini desiderano disperatamente avere informazioni sulla salute dei loro fratelli, ma spesso vengono esclusi dalle conversazioni che i genitori hanno con medici, assistenti sociali e terapisti.

Gli esperti suggeriscono un approccio proattivo nell’informare i fratelli sulla diagnosi. È utile trovare libri adatti alla loro età che possano essere in grado di spiegare loro cosa sta succedendo al fratello e coinvolgerli durante le visite mediche.

Nessuna fretta di crescere

I fratelli di bambini con bisogni speciali spesso maturano rapidamente e sviluppano un senso di responsabilità nei confronti dei loro fratelli, un fenomeno chiamato “genitorialità“. Sebbene possa sembrare un risultato positivo per i genitori, poiché i fratelli condividono parte del carico, un’eccessiva “genitorialità” può portare a problemi comportamentali e sentimenti di rifiuto.

La maggior parte degli esperti concorda sul fatto che sia importante incoraggiare i figli a mantenere la loro natura di bambini per il maggior tempo possibile. Alcuni bambini piccoli possono preoccuparsi di dove vivranno i loro fratelli in futuro e chi si prenderà cura di loro quando saranno adulti. I genitori dovrebbero creare occasioni per parlare del futuro e rassicurare i loro figli che si stanno facendo piani in merito.

Trovare le giuste parole e i giusti spazi

Il fattore più influente nell’interpretazione della disabilità da parte dei fratelli è l’interpretazione stessa della disabilità da parte dei genitori. Affrontare la disabilità di un figlio con umorismo e leggerezza, come qualcosa su cui lavorare insieme, aiuta a promuovere una visione più positiva tra gli altri bambini della famiglia.

Inoltre, è estremamente benefico per i sibling, fornire il giusto spazio per parlare di qualsiasi cosa o di niente, comprese le domande del bambino sul fratello o le sue preoccupazioni.
Bisogna sempre mantenere una comunicazione aperta e utilizzare l’ascolto attivo per far sentire i bambini capiti.

(di Marianna Astazi)

Diversità e inclusione nelle aziende: la situazione attuale

Diversità e inclusione nelle aziende: la situazione attuale

6 aziende su 10 non hanno ancora un piano definito per la diversità e l’inclusione, mentre 2 su 10 non ritengono che sia importante farlo. Questi sono i risultati allarmanti emersi dalla ricerca Future of Work condotta da Inaz – Osservatorio Imprese Lavoro e Business International – Fiera Milano. L’indagine ha coinvolto circa 100 HR director di aziende italiane, evidenziando la difficoltà nel tradurre buoni propositi in azioni concrete.

 

L’84% degli intervistati ritiene che la diversità e l’inclusione siano urgenti da un punto di vista etico, ma solo il 50% considera l’impatto che possono avere sul business e solo il 42% pensa al valore di fiducia che possono generare nella comunità finanziaria. Solo il 46% delle aziende ha un piano attivo per la diversità e l’inclusione, mentre il 63% non ha ancora sviluppato una pianificazione strutturata, anche se promette di farlo in futuro. Inoltre, il 20% delle aziende non ritiene importante dotarsi di un programma dedicato.

 

Ma perché è così difficile mettere in pratica strategie di diversità e inclusione? Secondo Linda Gilli, presidente e AD di Inaz, la diversità spaventa a causa dei pregiudizi accumulati nel tempo e delle barriere di diffidenza costruite su di essi. Tuttavia, è essenziale abbattere questi pregiudizi, poiché la diversità delle persone rappresenta un valore prezioso che arricchisce le imprese e i loro collaboratori.

 

È importante sottolineare che la diversità e l’inclusione vanno oltre le questioni di genere. Dall’indagine emerge una maggiore sensibilità verso la disabilità (78%), sebbene solo il 60% degli intervistati abbia previsto misure concrete per mitigare le condizioni di fragilità. La disabilità è spesso associata a pregiudizi, mancanza di conoscenza e di cultura. Tuttavia, le aziende che hanno superato queste barriere hanno avviato iniziative di ascolto, consulenza e introdotto tecnologie assistive per facilitare l’accesso al lavoro dei collaboratori disabili.

 

È fondamentale affrontare con determinazione la sfida della diversità e dell’inclusione, creando ambienti di lavoro che accolgano tutte le diversità e che siano basati sull’uguaglianza e sul rispetto reciproco. Solo così le aziende potranno veramente prosperare in un mondo in continuo cambiamento.

(di Marianna Astazi)

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