Che cos’è il Disability Management

Che cos’è il Disability Management

Che cos’è il Disability Management

Nella letteratura scientifica in ambito organizzativo, la disabilità viene considerata un tema olistico su cui convergono discipline diverse, mentre il disability management viene declinato in una serie di pratiche aziendali trasversali, in grado di incidere sulla cultura d’impresa. In generale si tratta di una strategia proattiva nell’identificare e risolvere tutti i fattori che impediscono alle persone, con qualsiasi tipo di disabilità, di accedere al lavoro: non si tratta semplicemente di una strategia di gestione che può fare affidamento, esclusivamente, sule strutture, sulle procedure e sui processi, ma di un’attività professionale, in grado di tenere nella dovuta considerazione tutti gli aspetti relazionali, che spesso risultano decisivi per ottenere successo.

 

Brevi cenni storici

Il Disability Management si è sviluppato in particolare in Nord America e Nord Europa, a partire della metà degli anni Ottanta del secolo scorso; attualmente paesi come Germania, Svizzera, Paesi Bassi, Stati Uniti, Canada e Regno Unito sono all’avanguardia, altri, invece, come Cina, Giappone, Italia e Francia, sono in notevole ritardo nell’istituzionalizzazione di tale figura.

In Italia, la legge 68 del 1999 sul diritto al lavoro delle persone con disabilità, che indica le modalità con cui le aziende con più di 15 dipendenti devono assumere tali categorie di soggetti, stabilisce che l’assunzione delle persone con disabilità non è più una questione di mero obbligo normativo, ma deve essere mirata a inserire la persona in un’attività lavorativa sulla base delle caratteristiche personali, oltre che delle esigenze aziendali.  Le prime iniziative di disability management risalgono alla fine degli anni ’90 e hanno riguardato soprattutto le imprese del Nord. Questo spiega perché ci siano pochi contributi sul tema, oltre al fatto che in Italia l’80% del tessuto produttivo aziendale è costituito da imprese con meno di quindici dipendenti e dunque non soggette all’obbligo di assunzione prescritto dalla legge. Il Jobs Act (D. Lgs. 151/2015) descrive la figura del disability Manager e ha contribuito a una fase di rinnovamento del collocamento mirato, con alcune modifiche alla Legge 68/1999. Se ad oggi l’obbligo di dotarsi di tale figura è in capo alle Pubbliche Amministrazioni con più di 200 dipendenti, la legge Delega (Legge 227/2021) lo estende a tutti i datori di lavoro pubblici; la norma approfondisce anche l’operatività di questo professionista, che non è più solo responsabile dell’inserimento lavorativo ma deve anche garantire l’accomodamento ragionevole (inclusione lavorativa e valorizzazione dei talenti con disabilità).

Gli studi sottolineano la necessità di un’attività formativa per i datori di lavoro e per i responsabili delle risorse umane su una cultura aziendale inclusiva, che garantisca a tutti un’esperienza lavorativa di alta qualità, nella quale l’inserimento di persone con disabilità costituisca un processo sistemico, rivolto a tutto il personale e che sia un’occasione di crescita e innovazione per l’azienda. Inoltre, risulta centrale per tutti i professionisti che operano in quest’area l’acquisizione di competenze specifiche sia sulla disabilità sia sulle nuove tecnologie.

 

Chi è il Disability Manager

Il Disability Management è parte integrante di un processo, che riguarda sia l’interno che l’esterno delle imprese, prima e dopo l’inserimento, capace di massimizzare gli effetti dell’inclusione lavorativa, in cui siano coinvolti tutti gli stakeholder implicati: imprese, associazioni sindacali e datoriali, centri per l’impiego, enti di formazione, università e aziende sanitarie. La presenza di tale figura ha lo scopo di promuovere metodologie e strategie attraverso le quali integrare i portatori di varie forme di diversità (genere, razza, religione, cultura, età, abilità), trasformando ciò che potrebbe essere un elemento di criticità in un vantaggio competitivo. Questo significa riconoscere le diversità sul luogo di lavoro come un obiettivo da includere nelle strategie che muovono le scelte aziendali; promuovere l’equità in azienda non significa trattare le diversità allo stesso modo, ma dare a tutti le stesse opportunità e gli stessi diritti in base alle specificità della propria situazione personale e professionale.

Le pratiche adottate dal Diversity Manager aumentano la coscienza delle qualità di un gruppo di lavoro diversificato, facilitando lo sviluppo di un atteggiamento flessibile e aperto che può incrementare la produttività, aumentano la soddisfazione dei lavoratori e dei clienti, attivano processi decisionali e di crescita arrivando a fornire servizi e prodotti migliori.

A livello operativo, questa figura promuove e supervisiona le azioni di pianificazione, programmazione, reclutamento, selezione, inserimento, formazione e conservazione del rapporto di lavoro. Il Disability Manager facilita le relazioni interne, individua le soluzioni tecniche e organizzative per mettere la persona con disabilità nelle condizioni di essere produttiva in modo congruente con le sue possibilità e potenzialità. Inoltre, sensibilizza i colleghi, contiene le conflittualità, garantisce la sicurezza, rimuove gli ostacoli organizzativi, ambientali e comportamentali che limitano l’integrazione, favorendo opportunità di reciproco successo. Valorizza anche l’autonomia e la professionalità del lavoratore, conciliando le esigenze di vita, di cura e di lavoro.

 

Un’azienda inclusiva è organizzata in modo da garantire l’empowerment delle persone che la compongono; in questo modo può diventare più efficace, più competitiva e più aderente ai cambiamenti socio-culturali che caratterizzano da sempre le società umane e che appaiono ancora più evidenti nell’attuale momento storico, denotato da più parti come “società dell’incertezza”. Un manager che promuove l’empowerment si assicura che la leadership non sia statica e fissata gerarchicamente, ma al contrario la rende dinamica; il “potere” sta nel lavorare insieme, nell’utilizzare efficacemente le competenze di tutti i lavoratori e nel valorizzare adeguatamente abilità, esperienza professionale e conoscenze richieste per compiti specifici.

Il Disability Management diviene così una strategia innovativa che si occupa del benessere aziendale, coinvolgendo all’interno dell’organizzazione una serie di attori: è un atteggiamento e un approccio culturale dell’azienda. Metaforicamente, è come un direttore d’orchestra, che consapevole dell’importanza e della peculiarità che ciascun musicista porta, si attiva affinché tutti possano suonare insieme per la realizzazione di una musica comune.

 A cura di Sara Mesiano

Rob de Matt: un caffè-bistrot inclusivo nella zona nord di Milano

Rob de Matt: un caffè-bistrot inclusivo nella zona nord di Milano

Inaugurato nel 2017 nel quartiere di Dergano a Milano, Rob de Matt è un bistrot e ristorante dove lavorano persone con disagio psichico, con disabilità, ma anche ex carcerati, rifugiati politici e migranti in difficoltà. La cucina presenta un mix di ricette della tradizione italiana con contaminazioni provenienti da molte cucine etniche. L’ampio giardino esterno ha dedicato una parte anche a un orto sinergico che è diventata un’occasione importante per coinvolgere gli abitanti del quartiere in un percorso che porta il cibo sano dalla terra direttamente alla cucina.

Abbiamo incontrato Francesco, uno dei fondatori del progetto e Martina, responsabile dei tirocini, che ci hanno raccontato da dove sono partiti, che cosa fanno e su cosa si basa la loro iniziativa di inclusione sociale.

Rob de Matt si presenta come un ristorante, ma è un’associazione di promozione sociale che nasce proprio con l’obiettivo della formazione professionale per persone con fragilità. Inizialmente l’idea era di coinvolgere principalmente persone con disagio psichico attraverso tirocini formativi, poi questa categoria dello “svantaggio” si è notevolmente ampliata e hanno deciso di collaborare con diversi enti come Celav, Afol, A&I e coinvolgere persone con diverse storie alle spalle.

Dalla formazione all’assunzione: il modello dei tirocini

Lo staff è composto dalla percentuale maggiore di personale assunto, tra cui anche ex tirocinanti e una media di otto tirocini che coprono sia la cucina sia la sala, nelle fasce del pranzo e della cena. Se le condizioni lo permettono e vi è una reale necessità di incrementare l’organico, come spesso accade nel periodo estivo, i tirocini si possono trasformare in contratti di lavoro e diventano parte integrante dello staff. Ad oggi il 20-25% del personale arriva direttamente da percorsi di tirocinio; il giorno in cui li abbiamo incontrati, ad esempio, su cinque persone assunte, tra sala e cucina, tre sono ex tirocinanti.

La modalità di inserimento di Rob de Matt prevede prima il percorso di tirocinio e poi eventualmente l’assunzione proprio perché questo percorso serve per capire se la persona è adatta al posto di lavoro e viceversa, proponendosi di mettendo in atto, se necessario, una serie di adattamenti e accomodamenti. La forza di questo tipo di inserimento, raccontano i gestori, risiede soprattutto nel lavoro di rete e nel confronto costante con tutti i professionisti che circuitano intorno alla persona che viene inserita: educatori e tutor di riferimento favoriscono la mediazione, forniscono informazioni importanti sul tipo di fragilità che li caratterizza e aiutano anche ogni candidato a esprimere le proprie esigenze, per trovare tutti insieme le strategie migliori da introdurre. Il bistrot ha deciso di investire sulla figura di Martina come responsabile dei tirocini, che è in aggiunta al tutor aziendale, previsto per legge, proprio perché Rob de Matt nasce con la mission specifica di inclusione di persone con fragilità.  “La formula del tirocinio ha come obiettivo non solo l’insegnamento di una professione ma anche un’inclusione a livello sociale, su cui puntiamo molto. Spesso si parte da zero e si lavora molto sulle soft kills: lavorare in gruppo, collaborare e arrivare in orario, relazionarsi in modo positivo con i colleghi e i clienti; sembrano cose banali, ma in realtà non lo sono.”

Martina è attenta al percorso nella sua totalità e non solo al semplice apprendimento delle mansioni. Il progetto, come ci racconta, nasce proprio con una finalità educativa: il percorso non è solo finalizzato all’acquisizione di competenze ma al coinvolgimento della persona a 360 gradi attraverso la predisposizione di un ambiente protetto in cui si possa sbagliare e si crei l’opportunità formativa di poter esprimere al meglio le proprie potenzialità. All’inizio l’ente inviante fornisce una panoramica sulla storia del candidato – punti di forza, punti di criticità e punti a cui prestare attenzione – che Martina riporta ai tutor aziendali, che seguono i tirocinanti nella parte operativa. Poi, durante tutto il percorso, c’è un continuo scambio e monitoraggio tra responsabile dei tirocini interno, tutor aziendale e tutor dell’ente inviante, per mettere a fuoco le eventuali difficoltà e trovare le soluzioni più adatte a quel tipo di tirocinante.

L’attenzione si focalizza molto anche sul gruppo di lavoro e c’è una formazione anche di tutto il resto del personale. Francesco ci tiene a sottolineare che proprio in fase di selezione dello staff uno degli elementi di cui tengono conto è capire se c’è questo tipo di attitudine e volontà e che la formazione avviene sul campo quotidianamente, attraverso un passaggio di consegne dai dipendenti con più esperienze a quelli appena assunti. È un modello di inserimento, quindi, ormai consolidato, che viene insegnato e tramandato e dal quale non si può prescindere per lavorare nello staff del locale.

“Se sei un ottimo barista dal punto di vista tecnico ma non sei in grado di lavorare a fianco di chi sta svolgendo un percorso di tirocinio, allora Rob de Matt non è il posto adatto a te.”

 

Perché fare inclusione

Il locale in questi anni ha ottenuto un notevole successo e si è fatto un nome non solo nelle zone di Dergano e Bovisa; ma in tutta la città. Il progetto funziona, è conosciuto, apprezzato e ha ottenuto diversi riconoscimenti dalla stampa. Ma perché conviene continuare a investire su questi inserimenti e ci sono dei risvolti positivi anche in termini economici?

 “Il valore aggiunto di questi tipi di inserimenti è di due tipi: la presenza dei tirocinanti e in generale la presenza dei progetti sociali di cui ci occupiamo è un elemento di identità; i clienti ci conoscono e apprezzano quello che facciamo, vengono qui perché magari preferiscono spendere da noi, che siamo impegnati in questo tipo di progetti, piuttosto che andare da altri.”

È quello che in azienda chiamano brand identity e che nel loro caso ha funzionato molto, soprattutto dopo il lockdown, perché la clientela ha riconosciuto loro il merito di aver trascorso il periodo della pandemia in giro per il quartiere a consegnare pasti. “Inoltre, la presenza dei tirocini contribuisce alla creazione di un clima e di un ambiente protetto che non ha come finalità primaria l’incremento degli incassi ma la valorizzazione dell’aspetto relazionale che permette la crescita personale e professionale di ognuno. Sentirsi parte del progetto permette di rimanere e di costruire quell’identità insieme. Se stai bene in un posto, lavori bene e di riflesso anche l’incasso ne trae benefici.”

Questa formula dei tirocini, poi, non è un costo che pesa sull’azienda in quanto la borsa lavoro viene erogata quasi sempre dall’ente inviante; di conseguenza il locale ha solo pochi costi indiretti, tra cui la figura del responsabile dei tirocini, sulla quale loro nello specifico hanno deciso di investire. Da sottolineare, però, che il tirocinante non sostituisce mai il dipendente nell’organico, ma è sempre una figura di appoggio, proprio perché le finalità dei percorsi sono differenti; l’obiettivo è proprio quello di diventare una risorsa importante e di riferimento per tutto lo staff. L’investimento in questo progetto e ciò che riteniamo sia importante condividere è proprio la formazione delle persone; “non a caso – sottolinea Martina – alcuni dei migliori dipendenti che abbiamo, arrivano dai percorsi di tirocinio.”

La formazione è importante per chi deve essere inserito nell’organico, ma anche per le aziende che decidono di assumere: ci sono molte realtà che vorrebbero sperimentarsi, ma non hanno le competenze e gli strumenti per poter essere accoglienti ed inclusivi, sottolinea Francesco. Ci vorrebbero maggiori supporti e aiuti per far in modo che i gestori non siano spaventati da queste assunzioni e siano a conoscenza dei percorsi da poter intraprendere per garantire inclusione, come la modalità dei tirocini che è ancora poco conosciuta e poco approfondita.

Rob de Matt non è solo un bistrot-ristorante che promuove l’inclusione sociale e una cucina sana e di qualità, ma è anche un’associazione che sostiene la socialità, la qualità della vita e la cura e la tutela dei più deboli, contrastando le situazioni di disagio. Ci sono ragazzi, che durante il percorso di tirocinio acquisiscono competenze e allo stesso tempo continuano ad avere le loro fragilità, si pensi ad esempio a chi ha delle malattie psichiatriche; ma ciò non vuol dire che non riescano a fare il loro lavoro al meglio. Magari a livello operativo sono bravissimi e invece sull’aspetto relazionale hanno maggiori difficoltà, cosa che potrebbe metterli in difficoltà già a partire dal primo colloquio, allora è lì che si deve aver voglia di andare oltre e di aprirsi alla conoscenza delle differenze. Rob de Matt contrasta soprattutto i pregiudizi e va oltre l’apparenza, continuando a tenere la porta del locale sempre aperta.

 A cura di Sara Mesiano

Diversamente uguali

Diversamente uguali

Cosa significa fare inclusione

La disabilità è un mistero”, così risponde Massimiliano alla domanda del figlio più piccolo, Cosimo, nel documentario “Zigulì” di Francesco Lagi. Massimiliano ha un altro figlio, Moreno, un bambino non vedente e autistico, quasi totalmente isolato dal mondo che lo circonda. 

Può sembrare un’affermazione bizzarra e strana, ma ciò che mette in primo piano questo racconto denso e delicato del rapporto tra un padre e un figlio disabile, è proprio il fatto che ognuno di noi ha una rappresentazione diversa della disabilità. 

La parola mistero rimanda a qualcosa di non conosciuto e fuori dal nostro controllo, ma allo stesso tempo anche a qualcosa di magico e che apre a nuove opportunità. La disabilità fa paura, inutile negarlo, e in molti casi provoca anche fastidio, quel fastidio che si prova per tutto quello per cui non abbiamo una risposta certa. Ma se la sfida fosse proprio iniziare a pensare che la disabilità possa rappresentare anche un’opportunità di adottare un altro punto di vista? L’occasione di vivere, sentire e guardare in un altro modo grazie a nuovi occhi con i quali scrutare il mondo.

Prima di entrare nel merito delle modalità da adottare per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, è necessario effettuare un cambio di paradigma e costruire una cultura intorno al tema, che metta al primo posto la riflessione e la messa in discussione di pregiudizi e pratiche obsolete.

Non è mettendosi nei panni dell’altro che avviene la comprensione, ma piuttosto attraverso l’accettazione dell’Altro in quanto diverso da sé e riconoscendolo come portatore di una prospettiva autonoma, altrettanto sensata. Lo stereotipo primario da combattere è quello che segna tutti i discorsi in cui c’è un uso indiscriminato del “noi” contrapposto al “loro”, perché inevitabilmente distanzia e differenzia. La rappresentazione dominante si basa sull’esistenza di gruppi di “diversi”, che sia il disabile o lo straniero poco cambia, che dovrebbero aspirare a diventare il più simile possibile a chi è “normale” e l’adesione ai modelli standard rappresenta ancora oggi la possibilità di accedere ai diritti fondamentali. La diversità, in ogni sua forma, ancora oggi impressiona e sconcerta a tal punto che l’unica soluzione possibile sembra essere il distanziamento, ma senza conoscenza, contatto e vicinanza, non può esserci superamento della segregazione. Non basta, dunque, integrare le diversità, ma è necessario formare ad esse e fare spazio alla ricchezza delle differenze. 

Solo il 35% delle persone tra i 15 e i 64 anni, che potrebbero lavorare nonostante alcune limitazioni fisiche o intellettive, ha effettivamente un impiego. Come mai? Sebbene l’orizzonte nuovo in cui si muove la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità è proprio quello dell’autodeterminazione, ancora oggi la tendenza è il più delle volte quella di far sparire la persona dietro alla condizione che vive. La prospettiva può cambiare solo nel momento in cui si riesce a togliere alla valutazione il potere di determinare il corso delle esistenze delle persone con disabilità. 

Spesso la confusione nasce tra la necessità di tutelare e il diritto al mantenimento di una soggettività piena, sia a livello relazionale sia a livello sociale. Tutti gli individui, a prescindere dalla gravità della disabilità, sono detentori del fondamentale diritto di scegliere gli obiettivi della loro vita, attraverso lo sviluppo di competenze e al fine di acquisire spazi di autonomia, all’interno di un ambiente che permetta di farlo. 

Dall’integrazione all’inclusione

L’obiettivo dell’inclusione è favorire una migliore e piena integrazione della persona nel contesto sociale ed economico, attraverso opportunità per tutti di sostenere lo sviluppo grazie alla partecipazione attiva nelle scelte di policy. In tal senso, l’inclusione si dovrebbe far carico di accrescere la capacità del contesto di rispondere adeguatamente alle esigenze di ogni singolo individuo. Rispetto all’integrazione, che si caratterizza come risposta alla specificità dei bisogni attraverso interventi e risorse specializzate, l’inclusione si connota come un’azione allargata di interventi finalizzati, ad esempio a realizzare migliori condizioni per l’impiego attraverso una maggiore qualificazione dei livelli di abilità e competenze professionali. 

In tale direzione, l’inclusione sociale implica il superamento delle categorie dei bisogni speciali con l’introduzione del concetto di barriere alla partecipazione e all’apprendimento per tutti. Questo non significa negare l’intervento speciale, ma rilanciare l’approccio di farsi carico di tutti coloro che nella vita quotidiana incontrano limitazioni e restrizioni al loro modo di “essere”. Non esistono bisogni speciali, ma solo specifiche necessità. 

L’obiettivo è di sostenere le persone con disabilità nel loro diritto a vivere in modo indipendente, inteso come sfida a uscire dall’assistenzialismo e ad affermare la centralità della persona, in modo che diventi protagonista diretto della propria storia. La disabilità intesa come concetto dinamico ed evolutivo muta con il mutare del soggetto e del contesto in cui la persona è calata. La proposta di sostegni fissi e sempre uguali, che non tengono conto di questi aspetti evolutivi, costituisce di fatto un limite alla possibilità di crescita del soggetto. Al contrario, la pluralità di aiuti rappresenta l’occasione di accompagnare la crescita in direzione emancipativa. Il processo inclusivo, a differenza della prospettiva dell’integrazione, sposta il focus dell’intervento dalla persona al contesto e alla capacità di quest’ultimo di rispondere alle differenze. Da qui bisogna partire per intraprendere un nuovo cammino. 

Sara Mesiano
Pedagogista

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