Cosa significa fare inclusione
“La disabilità è un mistero”, così risponde Massimiliano alla domanda del figlio più piccolo, Cosimo, nel documentario “Zigulì” di Francesco Lagi. Massimiliano ha un altro figlio, Moreno, un bambino non vedente e autistico, quasi totalmente isolato dal mondo che lo circonda.
Può sembrare un’affermazione bizzarra e strana, ma ciò che mette in primo piano questo racconto denso e delicato del rapporto tra un padre e un figlio disabile, è proprio il fatto che ognuno di noi ha una rappresentazione diversa della disabilità.
La parola mistero rimanda a qualcosa di non conosciuto e fuori dal nostro controllo, ma allo stesso tempo anche a qualcosa di magico e che apre a nuove opportunità. La disabilità fa paura, inutile negarlo, e in molti casi provoca anche fastidio, quel fastidio che si prova per tutto quello per cui non abbiamo una risposta certa. Ma se la sfida fosse proprio iniziare a pensare che la disabilità possa rappresentare anche un’opportunità di adottare un altro punto di vista? L’occasione di vivere, sentire e guardare in un altro modo grazie a nuovi occhi con i quali scrutare il mondo.
Prima di entrare nel merito delle modalità da adottare per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, è necessario effettuare un cambio di paradigma e costruire una cultura intorno al tema, che metta al primo posto la riflessione e la messa in discussione di pregiudizi e pratiche obsolete.
Non è mettendosi nei panni dell’altro che avviene la comprensione, ma piuttosto attraverso l’accettazione dell’Altro in quanto diverso da sé e riconoscendolo come portatore di una prospettiva autonoma, altrettanto sensata. Lo stereotipo primario da combattere è quello che segna tutti i discorsi in cui c’è un uso indiscriminato del “noi” contrapposto al “loro”, perché inevitabilmente distanzia e differenzia. La rappresentazione dominante si basa sull’esistenza di gruppi di “diversi”, che sia il disabile o lo straniero poco cambia, che dovrebbero aspirare a diventare il più simile possibile a chi è “normale” e l’adesione ai modelli standard rappresenta ancora oggi la possibilità di accedere ai diritti fondamentali. La diversità, in ogni sua forma, ancora oggi impressiona e sconcerta a tal punto che l’unica soluzione possibile sembra essere il distanziamento, ma senza conoscenza, contatto e vicinanza, non può esserci superamento della segregazione. Non basta, dunque, integrare le diversità, ma è necessario formare ad esse e fare spazio alla ricchezza delle differenze.
Solo il 35% delle persone tra i 15 e i 64 anni, che potrebbero lavorare nonostante alcune limitazioni fisiche o intellettive, ha effettivamente un impiego. Come mai? Sebbene l’orizzonte nuovo in cui si muove la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità è proprio quello dell’autodeterminazione, ancora oggi la tendenza è il più delle volte quella di far sparire la persona dietro alla condizione che vive. La prospettiva può cambiare solo nel momento in cui si riesce a togliere alla valutazione il potere di determinare il corso delle esistenze delle persone con disabilità.
Spesso la confusione nasce tra la necessità di tutelare e il diritto al mantenimento di una soggettività piena, sia a livello relazionale sia a livello sociale. Tutti gli individui, a prescindere dalla gravità della disabilità, sono detentori del fondamentale diritto di scegliere gli obiettivi della loro vita, attraverso lo sviluppo di competenze e al fine di acquisire spazi di autonomia, all’interno di un ambiente che permetta di farlo.
Dall’integrazione all’inclusione
L’obiettivo dell’inclusione è favorire una migliore e piena integrazione della persona nel contesto sociale ed economico, attraverso opportunità per tutti di sostenere lo sviluppo grazie alla partecipazione attiva nelle scelte di policy. In tal senso, l’inclusione si dovrebbe far carico di accrescere la capacità del contesto di rispondere adeguatamente alle esigenze di ogni singolo individuo. Rispetto all’integrazione, che si caratterizza come risposta alla specificità dei bisogni attraverso interventi e risorse specializzate, l’inclusione si connota come un’azione allargata di interventi finalizzati, ad esempio a realizzare migliori condizioni per l’impiego attraverso una maggiore qualificazione dei livelli di abilità e competenze professionali.
In tale direzione, l’inclusione sociale implica il superamento delle categorie dei bisogni speciali con l’introduzione del concetto di barriere alla partecipazione e all’apprendimento per tutti. Questo non significa negare l’intervento speciale, ma rilanciare l’approccio di farsi carico di tutti coloro che nella vita quotidiana incontrano limitazioni e restrizioni al loro modo di “essere”. Non esistono bisogni speciali, ma solo specifiche necessità.
L’obiettivo è di sostenere le persone con disabilità nel loro diritto a vivere in modo indipendente, inteso come sfida a uscire dall’assistenzialismo e ad affermare la centralità della persona, in modo che diventi protagonista diretto della propria storia. La disabilità intesa come concetto dinamico ed evolutivo muta con il mutare del soggetto e del contesto in cui la persona è calata. La proposta di sostegni fissi e sempre uguali, che non tengono conto di questi aspetti evolutivi, costituisce di fatto un limite alla possibilità di crescita del soggetto. Al contrario, la pluralità di aiuti rappresenta l’occasione di accompagnare la crescita in direzione emancipativa. Il processo inclusivo, a differenza della prospettiva dell’integrazione, sposta il focus dell’intervento dalla persona al contesto e alla capacità di quest’ultimo di rispondere alle differenze. Da qui bisogna partire per intraprendere un nuovo cammino.
Sara Mesiano
Pedagogista