“Perché parcheggia nello stallo riservato alle persone con disabilità, se cammina?”
Questa è una frase di tipo discriminatorio quando si giudica una persona con disabilità invisibile. La rappresentazione più comune, per preconcetti e stereotipi sociali, della persona con disabilità consiste in un’immagine standard che propone l’utilizzo di ausili ben visibili, come carrozzina, protesi, stampelle o bastone. Ed è qui che, più o meno inconsapevolmente, si compie una forma di discriminazione velata: considerare una persona con disabilità (etichetta) solo se rimane incasellata in alcune skills fuorvianti.
Secondo l’Istat il numero totale delle persone con disabilità si aggira intorno ai 13 milioni, di cui circa 3 milioni presentano una disabilità grave. Questo numero corrisponde a circa il 21% della popolazione italiana e include un’ampia gamma di disabilità, da quella più grave a quella con minori limitazioni e ripercussioni sulla vita quotidiana, comprese malattie croniche, tumori, demenze e disturbi del comportamento. In molti casi, la condizione di disabilità è dettata da una situazione che limita e vincola la quotidianità, che può essere poco visibile e non intuibile se la persona non lo dichiara. Le cosiddette disabilità invisibili, tema poco affrontato e sommerso, sono tutte quelle menomazioni fisiche, mentali o emotive che il più delle volte passano inosservate.
Generalmente si pensa che la disabilità sia un problema lontano, che colpisce poche persone, ma le statistiche raccontano che non è così. Il 96% delle persone con condizioni mediche croniche vivono con una malattia che è invisibile; alcuni esempi sono la fibromialgia, l’endometriosi, l’epilessia o il diabete. Le disabilità invisibili trasformano in fantasmi chiunque si ritrovi a doverle fronteggiare.
È imperativo riconoscere anche queste disabilità, in primo luogo, per ridurre lo stigma e aumentare la comprensione; infatti, il 46% delle persone in Italia dichiara di non aver rivelato la propria condizione sul posto di lavoro per timore di eventuali discriminazioni e pregiudizi. Le persone con disabilità invisibili possono essere giudicate o fraintese da altri, che non capiscono le loro difficoltà. Il malato invisibile è costretto a giustificarsi e a spiegare che cosa gli accade, vedendo costantemente messa in dubbio la propria credibilità: è qualcosa che porta grande disagio e sovente anche un senso di umiliazione. Attraverso la conoscenza, si crea una società più solidale ed inclusiva e si può fornire il sostegno di cui hanno bisogno. Inoltre, si evitano le generalizzazioni e si impara ad osservare tutte le sfumature, che non sono solo quelle dei colori primari.
Per le persone con disabilità invisibile può essere difficile parlare della propria situazione, soprattutto nel contesto lavorativo, che mira alla perfomance e alla produzione, azioni che possono risultare molto complicate in questi casi. Ecco perché la priorità è parlarne, in quanto conoscere la situazione permette all’impresa di adattare l’ambiente e fornire i necessari supporti per lavorare tutti al meglio.
Parlare serve alle persone con disabilità, che possono sentirsi finalmente comprese e visibili e alle aziende che possono trovare delle strategie per ottenere un luogo di lavoro più confortevole.
Nel 2016 l’associazione britannica Hidden Disabilities ha ideato un modo per rendere note queste disabilità che non si vedono a occhio nudo: un cordino di quelli per appendere i badge, verde con disegnati sopra dei girasoli. È usato in molti paesi, tra cui l’Italia, ad esempio al Museo Egizio di Torino, per segnalare che si ha diritto a un’assistenza particolare o a una precedenza, perché si sta usufruendo di corsie o parcheggi riservati, o semplicemente se in fila al supermercato ci vuole un po’ più di tempo per insacchettare la spesa. Oltre a segnalare in modo discreto il proprio bisogno di assistenza, il cordino coi girasoli può servire a indicare che c‘è un motivo se si sta usufruendo di corsie o parcheggi riservati, evitando accuse e pregiudizi.
A cura di Sara Mesiano