L’articolo 27 Della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità riconosce loro il diritto al lavoro su base di eguaglianza; questo significa che il lavoro dovrebbe essere scelto liberamente, dovrebbe permettere alla persona di mantenersi e dovrebbe avvenire in un ambiente in grado di garantire inclusione e accessibilità.
Su questo aspetto, la normativa italiana in materia (Legge 68/1999), è molto avanzata, ma allo stesso tempo rimangono alcune criticità. Il focus permane sulla disabilità – anche gli annunci di lavoro ne sono una rappresentazione: in primo piano ci sono le difficoltà e le barriere, spesso ci si dimentica che queste non dovrebbero essere un “problema” delle persone con disabilità, ma al contrario sono l’evidenza dell’incapacità della società di adattarsi ai bisogni di tutti. Quest’eguaglianza, quindi, prevista dalla Convenzione e tanto desiderata, non c’è ancora. Per ottenerla, il focus si deve spostare sulla persona e non sulla sua disabilità: solo così il mondo del lavoro potrà essere veramente aperto e garantire dignità a ogni individuo. Un esempio è l’accomodamento ragionevole, ovvero quell’aggiustamento necessario che possa permettere alla persona con disabilità di esercitare il proprio diritto sulla base di eguaglianza con gli altri. Il punto di partenza, però, per l’utilizzo di questo facilitatore è la disponibilità delle aziende e dei datori di lavoro.
Le prime sfide da affrontare per avvicinare mondo del lavoro e disabilità sono la discriminazione e l’inferiorizzazione. C’è un’idea implicita, che riguarda tutti, che pensa alla disabilità come a una condizione umana di inferiorità e per nulla desiderabile. Il più delle volte le persone vengono identificate con i propri bisogni e si pensa di poter decidere per loro, perché li si considera “non in grado”, di fatto inabili. Ma perché succede questo? Da dove proviene questa convinzione?
La disabilità è un tema universale in quanto riguarda il funzionamento del corpo, un corpo che abbiamo tutti e attraverso il quale ci relazioniamo con il mondo. La mitologia, la letteratura classica, l’iconografia medioevale, la riflessione filosofica del Sei e del Settecento mostrano un’immagine negata, svalutata e occultata del corpo del disabile, perché malato, debole, deforme e di conseguenza stigmatizzato. Tutti coloro che hanno un deficit fisico o mentale, nell’età antica e nel Medioevo, vengono allontanati dai normali circuiti della vita sociale e condannati ad uno stato di emarginazione; la deformità o la debolezza del corpo viene assimilata ad una colpa personale, da espiare con l’esposizione o con l’abbandono. La disabilità è sempre stata un problema per la società, che per progredire doveva contare su corpi conformi e performanti. Anche per questo motivo l’arte l’ha associata spesso a concetti e personaggi negativi; basti pensare alla rappresentazione della malattia mentale nei volti mostruosi degli schizzi di Leonardo da Vinci. Da questo immaginario tramandato deriva la visione parziale e abilista che ci portiamo in eredità fin dai tempi antichi.
Solo dagli ultimi decenni dell’Ottocento inizia una rivalutazione del corpo che prosegue nel Novecento con gli studi sulla psicomotricità e un approccio scientifico allo studio delle diverse disabilità. In linea con questi cambiamenti, muta anche l’immaginario: Victor Hugo, ad esempio, racconta la storia del “gobbo di Notre Dame”, tratteggiando un personaggio dall’animo tormentato e apparentemente meschino, che è però una conseguenza di come lo tratta la società e che nasconde, al contrario, un temperamento in grado di amare e sacrificarsi per l’altro.
Se guardiamo a oggi e arriviamo al cinema, incontriamo una rappresentazione della disabilità che si polarizza: da una parte personaggi intrinsecamente malvagi, come Joker, in cui la malattia mentale lo rende un vero e proprio genio del male, dall’altra iper-virtuosi, quasi dei supereroi, che per compensare la propria disabilità, sviluppano capacità eccezionali, come Forrest Gump o Rain Man.
È come se si fosse passati dall’occultamento alla spettacolarizzazione, là dove continua a mancare un racconto autentico dell’esperienza umana.
Allora per costruire forme di inclusione, che vogliano davvero integrare, per modificare un immaginario radicato nella nostra storia e per abbattere l’idea che le persone con disabilità siano in una condizione di inferiorità e identificate con la loro diagnosi, è necessario costruire relazioni e aprire un confronto che possa ampliare l’orizzonte di possibilità di ogni individuo.
Essere consapevoli dell’abilismo, soprattutto quando è interiorizzato, è fondamentale per cambiare il linguaggio e di conseguenza le dinamiche mentali con le quali la società si approccia al tema della disabilità.
I manager possono chiedersi perché dovrebbero assumere una persona con disabilità visto che potrebbero assumerne una senza. La risposta è che le imprese non devono assumere una persona con disabilità ma piuttosto una persona che possieda le competenze richieste per quella determinata posizione, se poi succede che ha delle disabilità, allora ci si chiede come affrontarle, ma la questione parte proprio da un presupposto ribaltato. Al primo posto ci sono sempre le persone, ognuna con la propria storia, e questo non ci stancheremo mai di dirlo.
Un ambiente di lavoro in cui ogni individuo può esprimere il meglio di sé e dove, chiunque, a prescindere dalle sue condizioni personali, si sente sicuro e protetto, è vincente anche da un punto di vista economico perché è più creativo, più efficiente e apporta un netto miglioramento all’immagine dell’azienda presso il personale, gli stakeholders e la clientela. Infatti, una politica aziendale totalmente inclusiva dà l’opportunità al management di contare su un range più ampio di talenti e riduce il turnover. La via da percorrere sta nella parola “diversità” e la vera domanda da farsi è quali sono gli svantaggi di un ambiente non inclusivo. E sono tanti a partire dalle barriere che vengono erette anziché abbattute. Da qui a cascata si possono generare una serie di conseguenze negative in termini di realizzazione personale, qualità delle relazioni e dedizione al proprio lavoro.
Ecco perché è importante sostenere e promuovere la differenza: Don Milani, docente ed educatore degli anni Sessanta del Novecento diceva che “nulla è più ingiusto che fare parti uguali tra disuguali.
Sara Mesiano
Pedagogista